…Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare… io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare.

...solo un sogno, un'emozione...una nuvola...solo un alito di vento che ti sfiora, solo l'eco dei tuoi passi nella sera...

sabato 30 aprile 2016

A mano amata

A mano amata,
quando la notte impone la sua consueta insonnia
e trasforma
ogni minuto nell’anniversario
di tutti gli eventi di una vita;
lì,
nell’angolo più buio dell’abbandono
dove mai e ieri incrociano le ombre,
i ricordi mi assalgono.
Alcuni impugnano il tuo sguardo verde,
altri
mi puntano alla schiena
l’anima bianca di un sogno lontano,
e con voce inudibile,
con implacabili labbra silenziose,
mi intimano:
l’oblio o la vita!
Riconosco i volti.
Non sottraggo il corpo.
Chiudo gli occhi per vedere
e sento
che mi pugnala freddo,
con giustezza,
questo ferro vecchio:
la memoria.
Angel Gonzalez

Fiori, frammenti del tuo corpo

Fiori, frammenti del tuo corpo;
a me reclamo la sua linfa.
Stringo tra le mie labbra
la lacerante verga del gladiolo.
Cucirei limoni al tuo torso,
le sue durissime punte nelle mie dita
come alti capezzoli di ragazza.
La mia lingua già conosce le più morbide strie del tuo orecchio
ed è una conchiglia.
Essa sa del tuo latte adolescente,
ed odora delle tue cosce.
Nelle mie cosce contengo i petali bagnati
dei fiori. Sono fiori frammenti del tuo corpo.
 
Ana Rossetti

venerdì 29 aprile 2016

Fiaba



Il quarantanove era il tuo numero magico.
Quarantanove questo.
Quarantanove quello. Quarantotto
porte nel tuo alto palazzo potevano essere aperte.
Ogni notte, dopo che eri andata via,
potevo scegliere tra quarantotto stanze.
Ma la quarantanovesima – ne tenevi tu la chiave.
Quella l’avremmo aperta, un giorno, insieme.
Andavi via: una vampata di capelli e un tuffo
nell’abisso.
Ogni notte. Il tuo amante Orco
che per tutto il giorno ritemprava le forze
dentro la morte, aspettava nel baratro
sotto le stelle frementi.
E io avevo quarantotto chiavi, porte e stanze
con cui giocare. Il tuo Orco
era la somma, stipata in una sola carcassa vudù,
di tutti i tuoi amanti passati –
quanti, chi, dove, quando
non lo dicesti mai neppure al tuo diario segreto.
Solo uno splendeva come un vulcano
lontano nella notte.
Ma io non guardai mai, non vidi mai
la sua effigie laggiù, che bruciava nelle tue lacrime
come fosse di catrame.
Come il lume da notte di un bambino addormentato,
consolava il tuo cosmo.
Nel frattempo, quell’Orco era più che sufficiente,
come se ogni notte tu morissi per stargli vicino,
come se volassi via nella morte.
Queste le tue notti. Di giorno,
sorridente, mi ascoltavi
raccontare le sorprese di questa o quella
delle quarantotto stanze.
La tua felicità rendeva soffice il letto.
Una fiaba? Sì.
Fino al giorno in cui gridasti nel sonno
(no, non fui io, come credevi,
fosti tu). Gridasti
il tuo male d’amore per quell’Orco,
la tua supplica gemente.
Coi capelli di ghiaccio, lo sentii echeggiare
per tutti i corridoi del nostro palazzo –
alto lassù fra le aquile. Finché lo sentii
battere alla quarantanovesima porta
come il mio cuore batteva contro le costole.
Un suono spaventoso.
Batteva a quella porta come il mio cuore
che cercava di uscire dal corpo.
L’indomani notte – dopo il tuo tuffo
per ritrovare quelle braccia
che si inarcavano verso di te dalla morte –
trovai quella porta. Col cuore che mi feriva le costole
aprii la quarantanovesima porta
con un filo d’erba. Tu non hai mai saputo
quale passe-partout avessi trovato
in un semplice filo d’erba. Ed entrai.
La quarantanovesima stanza si contorse tutta
al ruggito dell’Orco
che, sfondata la parete, si tuffò
nel suo abisso. Lo intravidi
mentre inciampavo
nel tuo cadavere e cadevo con lui
dentro il suo abisso.
Ted Hughes

Notte d'insonnia

Notte d’insonnia. Omero. Vele tese laggiú.  
Ho letto, delle navi, fino a metà il catalogo:  
questa lunga nidiata, questo corteo di gru  
che dall’Ellade un giorno si levò e prese il largo.
Cuneo di gru diretto verso estranee frontiere –
bianca schiuma divina sulle teste dei re –,
per dove fate rotta? Per voi Troia senz’Elena  
sarebbe mai la stessa, maschi guerrieri achei?
L’amore tutto muove – muove Omero e il suo mare.
A chi presterò ascolto? Ma ecco tace Omero,
ed enfaticamente strepita un mare nero  
che con un greve rombo si addossa al capezzale.
Osip Ėmil’evič Mandel’štam

L'ultimo crepuscolo


Ceneri dell’amore sugli altari del mondo,  
niente di nuovo. 
Álvaro Mutis


Che ne è stato di questo millennio ormai andato  
al quale siamo arrivati in ritardo?  
Siamo nati con l’ultimo crepuscolo,  
quando le ombre di dieci secoli  
si ammassavano in un immenso delta
di fronte a un oceano senza nessuno…
E dell’altro millennio che sta nascendo,
chi saprà dirci quante ore  
potranno essere nostre, amore mio?
Il tempo intorno a noi esiste o non esiste,  
non si sa mai niente qui sulla terra.
Forse sono illusori gli anni e i lori movimenti  
e le ore assenti
e tutte quelle trascorse.
Soltanto il tuo sorriso è vero,  
più bello dei secoli che partono  
o che arrivano;
soltanto la tua voce, i tuoi occhi, le tue parole  
e il nostro stupore per la vita che è qui,  
per poter celebrarla in ogni fiamma del suo fuoco  
fino al minimo istante.
Eugenio Montejo

mercoledì 27 aprile 2016

Posta

Son poi davvero chiare le tue idee,
domandò il postino. In quell’istante  
si oscurò il cielo,  
ma non fu per quello,  
qui succede sempre così,
da un momento all’altro.
Pioverà, disse, e così accadde.
Grosse gocce. Dietro di lui vedevo la baia,
un aereo pesante tra le nubi,
lento. Atterrava.
Che ne è di tali momenti?  
Quanto brusio può andar perduto?
Quali dialoghi non possono  
infrangersi contro il muro del tempo, in mancanza  
di memoria, da qualche parte, laggiù  
in un sogno?
Finzione, una casa su una collina,
il salmo della pioggia, pagina sei,  
portalettere, discesa, sentiero in collina,  
entrando nell’oblio,  
il suo, il mio,
il lardo del tempo.
Come qualcuno volta una pagina  
senza averla letta,
tutto scritto per niente.
Cees Nooteboom

La francese

Una donna intelligente.
Una donna bella.
Conosceva tutte le varianti, tutte le possibilità.
Lettrice degli aforismi di Duchamp e dei racconti di Defoe.
In genere con un autocontrollo invidiabile,
Tranne quando era depressa e si ubriacava,
Cosa che poteva durare due o tre giorni,
Una sequela di bordeaux e di valium
Da far accapponare la pelle.
Allora di solito ti raccontava le storie che aveva vissuto
Tra i quindici e i diciotto anni.
Un film di sesso e di terrore,
Corpi nudi e affari ai limiti della legalità,
Un’attrice per vocazione e, nello stesso tempo, una ragazza con strani tratti di avarizia.
La conobbi quando aveva appena compiuto venticinque anni,
In un’epoca tranquilla.
Immagino che avesse paura della vecchiaia e della morte.
La vecchiaia per lei erano i trent’anni,
La Guerra dei Trent’Anni,
I trenta anni di Cristo quando cominciò a predicare,
Un’età come un’altra, le dicevo mentre cenavamo
A lume di candela,
Contemplando la corrente del fiume più letterario del pianeta.
Ma per noi l’incanto era da tutt’altra parte,
Negli angoli posseduti dalla lentezza, nei gesti
Divinamente lenti
Del disordine nervoso,
Nei letti al buio,
Nella moltiplicazione geometrica delle vetrinette vuote
E nell’abisso della realtà,
Nostro assoluto,
Nostro Voltaire,
Nostra filosofia da camera e da toilette.
Una ragazza intelligente, dicevo,
Con quella rara virtù previdente
(Rara per noi latinoamericani)
Che è così comune nella sua patria,
Dove perfino gli assassini hanno il libretto di risparmio
E lei non era da meno,
Un libretto di risparmio e una foto di Tristán Cabral,
La nostalgia del non vissuto,
Mentre quel prestigioso fiume trascinava un sole moribondo
E sulle sue guance cadevano lacrime apparentemente gratuite.
Non voglio morire, sussurrava mentre veniva
Nella tagliente oscurità della camera da letto,
E io non sapevo cosa dire,
Non sapevo veramente che dire,
Salvo accarezzarla e sostenerla mentre si muoveva
Su e giù come la vita,
Su e giù come le poetesse di Francia
Innocenti e pudiche,
Fino a quando ritornava sul pianeta Terra
E dalle sue labbra spuntavano
Paesaggi della sua adolescenza che subito riempivano la stanza
Con copie di se stessa che piangevano sulle scale mobili della metropolitana,
Con copie di se stessa che facevano l’amore con due tizi per volta
Mentre fuori cadeva la pioggia
Sopra i sacchetti della spazzatura e sulle pistole abbandonate
Dentro i sacchetti della spazzatura,
La pioggia che tutto lava
Tranne la memoria e la ragione.
Vestiti, giubbotti di cuoio, stivali italiani, biancheria intima che mi faceva impazzire,
Che la faceva impazzire,
Apparivano e sparivano nella nostra camera sfavillante e frenetica,
E tracce veloci di altre avventure meno intime
Brillavano nei suoi occhi feriti come lucciole.
Un amore che non sarebbe durato a lungo
Ma che alla fine sarebbe diventato indimenticabile.
Questo disse,
Seduta vicino alla finestra,
Il volto sospeso nel tempo,
E le sue labbra: le labbra di una statua.
Un amore indimenticabile
Sotto la pioggia,
Sotto quel cielo fitto di antenne dove convivevano
Le ampie soffittature del XVII secolo
E le cacche di piccione del XX secolo.
E in mezzo
Tutta l’inestinguibile capacità di provocare dolore,
Intatta attraverso gli anni,
Intatta attraverso gli amori
Indimenticabili.
Sì, disse proprio così.
Un amore indimenticabile
E breve,
Come un uragano?
No, un amore breve come il sospiro di una testa ghigliottinata,
La testa di un re o di un conte bretone,
Breve come la bellezza,
La bellezza assoluta,
Quella che contiene tutta la grandezza e la miseria del mondo,
Visibile solo a coloro che amano.
Roberto Bolaño

Occhi

Non innamorarti mai di una fottuta drogata:
Le prime luci del giorno ti sorprenderanno
Con le nocche insanguinate e fradicio di urina.
Un piscio ogni volta più scuro, ogni volta
Più preoccupante. Come quando in un’isola greca
Lei si nascondeva tra le rocce o in una squallida
Pensione a Barcellona, quando recitava a memoria
Ferrater in catalano e intanto riscaldava
L’eroina in un cucchiaio che si piegava
Come se quel coglione di Uri Geller fosse
Nella stanza accanto. Mai, non andare mai a letto
Con una fottuta puttana suicida: all’alba il tuo volto
Si scomporrà in figure geometriche in tutto simili
Alla morte. Come un ebete e con le tasche vuote
Vagherai nella luce livida del mattino
E allora il desiderio, ormai spento, ti sembrerà
Uno scherzo che nessuno si prende la briga
Di spiegarti, una frase senza senso, una nota
Incisa nell’aria. E poi l’azzurro. Il fottuto
Azzurro. E il ricordo delle sue gambe sulle tue
Spalle. Il suo odore penetrante e strano. La sua mano
Distesa che aspetta il denaro. Estranea alle confessioni
E ai gesti usuali dell’amore. Estranea alle regole
Della tribù. Un braccio e i piedi bucati
Più e più volte: splendenti nella linea che separava
O che univa l’atteso all’imprevisto, il sogno
All’incubo che scorreva tra le piastrelle
Come un piscio sempre più scuro: whisky, coca-cola
E alla fine un grido di paura o di sorpresa, non certo
Una richiesta di aiuto, non un gesto d’amore,
Un fottuto gesto d’amore alla maniera di Hollywood
O del Vaticano. E i suoi occhi, ricordi i suoi occhi dietro
Quella chioma bionda? Ricordi le dita sporche che sfregavano
Quegli occhi limpidi, quegli occhi che parevano guardarti da un altro
Tempo? Ricordi quegli occhi che ti facevano piangere
D’amore, contorcerti d’amore nel letto disfatto
O per terra, come se fossi tu ad avere la scimmia e non lei?
Non dovresti proprio ricordarli quegli occhi. Nemmeno un istante.
Quegli occhi quasi cancellati che sembravano seguire attenti
Le movenze di una passione che non era di questo fottuto pianeta:
La vera bellezza, quella dei forti, brillava lì,
Nelle sue pupille dilatate, nei palpiti del suo cuore
Quando il pomeriggio rincasava come in una sequenza accelerata,
E nella nostra pensione di merda si udivano di nuovo i rumori,
I vagiti della notte, e i suoi occhi si chiudevano. 
Roberto Bolaño

martedì 26 aprile 2016

Se

Con l’ultimo giardino la strada
s’insabbia, s’impaluda in un’orchestra
di rane. Steso, chiaro
mi arriva lo stagno con bruschi
cespugli, con piante leggere.
C’è un’aria di abbandono e di rivalsa
intorno alle paludi: se ne vive
ciascuno della vita e della morte
dell’altro: e questo bel verde innocente
della felce ricciuta si fa –
come il resto – da un lungo cimitero.
E qui ritrovo quel mio divenire
infinito con tutta l’altra terra
e la saggezza ironica: sapere
d’essere sostituibile sempre.
– Se questo, dico all’improvviso, questo
fosse il mio ultimo giorno –
E subito di tutto m’innamoro
tanto ogni cosa mi risembra bella
nella sua fuga, ogni spiro, ogni insetto.
E quel tuo viso stesso
– che ieri non riuscivo più a vedere –
ecco ridiventarmi fiore e festa.
O vita, o cara mia felicità.
Mi sento nuovamente buia e calda
come una linfa di pianta nel sole,
come una cosa amata.

Daria Menicanti


Noi siamo la buccia e la foglia

Noi siamo la buccia e la foglia.
La grande morte che ognuno ha in sé
è il frutto attorno a cui ruota ogni cosa.
Per questo frutto crescono le ragazze
levandosi come un albero da un liuto
e ragazzi per averle bramano diventare adulti,
e chi cresce confida alle donne paure
che nessun altro potrebbe placare.
Per questo frutto rimane eterno
quel che ammirammo anche se passato da tempo-
e scultori e architetti si realizzarono
in un mondo che gelò, sgelò
e s'intrecciò con esso illuminandolo.
Vi fluirono dentro il calore del cuore
e il bianco ardore del cervello-:
ma i tuoi angeli vi passano sopra come uccelli:
tutti i frutti erano verdi per loro.

Rainer Maria Rilke


domenica 24 aprile 2016

Se un’anima è nata con le ali

Se un’anima è nata con le ali,
   cos’è per lei il palazzo e cos’è la capanna!
   Cos’è Gengis Khan per lei – e cos’è – l’Orda!
   Due nemici ho io a questo mondo,
   due gemelli – indissolubilmente fusi:
   la fame degli affamati – e la sazietà dei sazi.
       Marina Cvetaeva,  18 agosto 1918

Ai miei versi scritti così presto

Ai miei versi scritti così presto,
   che nemmeno sapevo d’esser poeta,
   scaturiti come zampilli di fontana,
   come scintille dai razzi.
    Irrompenti come piccoli demoni
   nel sacrario dove stanno sogno e incenso,
   ai miei versi di giovinezza e di morte,
   versi che nessuno ha mai letto!
       Sparsi fra la polvere dei magazzini,
   dove nessuno mai li prese né li prenderà,
   per i miei versi, come per i pregiati vini,
   verrà pure il loro turno.
       Marina Cvetaeva,   Koktebel, maggio 1913

sabato 23 aprile 2016

Notturna e Imperfetta

Se ti pare che io sia notturna e imperfetta
Guardami di nuovo. Perché stanotte
Mi sono guardata come se a guardarmi fossi tu.
E era come se l’acqua
Desiderasse
Sfuggire alla sua casa che è il fiume
E galleggiando appena, nemmeno lambire la riva.
Ti ho guardato. E da tempo
Capisco di essere terra. Da tanto tempo
Aspetto
Che il tuo corpo d’acqua più fraterno
Si distenda sul mio. Pastore e navigante
Guardami di nuovo. Con meno arroganza.
E con più attenzione.
Hilda Hilst

Volevo l’estasi

Per Alejandra Pizarnik
Vedi, io vivo con un coltello
dentro lo stomaco.
Mi taglia a pezzi l’infanzia
mi taglia le pupille
che vedono solo notte e squarci.
Tutte le cose hanno lame spille
angoli punti spigoli
e parole spinose.
Le mie
stanno acquattate come bestie in allarme
si dolgono di solitudine
incurabili, inascoltate.
Non c’è nulla di morbido al mondo.
Nella culla
al posto dei cuscini e dei ninnoli
mi misero le scarpe slacciate
le bambole rotte il latte amaro
e il pensiero della morte.
Mi cullarono con le forbici
trapanato il sesso scorticata
la bocca perché parlassi
solo di ossa
della colonna vertebrale del mondo
albero sempre invernale.
Volevo l’estasi
il perpetuo orgasmo tra terra e parole
volevo
il corpo emotivo della bellezza.
Nell’aldilà
troverò piume e sete
sentirò volare i miei capelli
dolcemente snodati
dalle ariose dita di un dio primaverile.
Lucetta Frisa

Un giorno bianco

Dammi un giorno bianco, un mare di belladonna,
Un movimento
Intero, unito, addormentato
Come un solo momento.
Io voglio camminare con chi dorme
Fra paesi senza nome che fluttuano.
Immagini così mute
Che nel guardarle mi sembri
D'aver chiuso gli occhi.
Un giorno in cui si possa non sapere.
Sophia De Mello Breyner Andresen

Negli alberi

Negli alberi, nelle loro chiome, sotto sontuose
vesti di foglie e sottane di luce,
sotto i sensi, sotto le ali, sotto gli scettri,
negli alberi si cela, respira, palpita
una vita quieta, sonnolenta, un abbozzo d’eterno.
Prosperi reami crescono nell’ambone
delle querce. Gli scoiattoli corrono, immobili
come piccoli tramonti rossi nascosti
sotto le palpebre. Ostaggi invisibili
formicolano sotto i gusci delle ghiande,
gli schiavi portano cesti con frutta e argento,
i cammelli oscillano come studiosi
arabi sopra i loro manoscritti, i pozzi
bevono acqua e aceto, l’acerba Europa
stilla come resina dal legno, Vermeer dipinge
vesti e una luce che non va scemando.
Sotto la cupola del circo danzano i tordi.
Slowacki già abita a Parigi e gioca
perseverante in borsa. Un ricco
si infila nella cruna d’un ago
e geme, ah, che tortura, Socrate
spiega ai cercatori d’oro che cos’è
la menzogna, che cosa il bene e la virtù.
I rematori remano lenti. E lente navigano
le barche a vela. I fuggitivi dell’Insurrezione
di Varsavia bevono un tè dolce,
sui rami asciuga la biancheria,
qualcuno nel sonno chiede «dov’è
la mia patria». Un veliero verde è fissato
a un’ancora arrugginita. Un coro di anime immortali
prova una cantata di Bach, in silenzio.
Accanto, su un angusto divano, dorme, stanco,
capitan Nemo. Un picchio trasmette un telegramma
urgente con la notizia della conquista
di Cartagine e del Boston Tea Party.
La donnola non si tramuta affatto
in lady Macbeth, nelle chiome degli alberi
non esistono rimorsi.
Icaro serenamente affoga.
Dio riavvolge il nastro. Le spedizioni punitive
rientrano in caserma.
Vivremo a lungo negli intrecci di un arabesco,
nel balbettio dell’allocco, nel desiderio, nell’eco
senza casa, sotto sontuose vesti di foglie,
nelle chiome degli alberi, nell'altrui respiro.
Adam Zagajewski

venerdì 22 aprile 2016

Viaggio

Cammino dentro di me
come in una città straniera
dove non conosco nessuno.
La sera ho paura per strada
e nei pomeriggi di pioggia
ho freddo e sto male.
Né ho voglia di viaggiare,
quando anche solo attraversare la via
è un'avventura,
né ho ricordi di altre vite
alla domanda
"Perchè mi hanno portato qui?"
Ana Blandiana

Canzone

Tutto l'autunno, rosa,
è questo solo petalo
che cade.
Bimba, tutto il dolore
è questa sola goccia tua
di sangue.

Juan Ramon Jiménez

giovedì 21 aprile 2016

Se il nostro luogo è dove

Se il nostro luogo è dove
il silenzioso guardarsi delle cose
ha bisogno di noi
dire non è sapere, è l’altra via,
tutta fatale, d’essere.
Questa la geografia.
Si sta così nel mondo
pensosi avventurieri dell’umano,
si è la forma
che si forma ciecamente
nel suo dire di sé
per vocazione.
Silvia Bre

Settima poesia verticale, 32

Così come non possiamo
sostenere a lungo uno sguardo,
neppure possiamo sostenere a lungo l’allegria,
la spirale dell’amore,
la gratuità del pensiero,
la terra sospesa nel canto.
Non possiamo nemmeno sostenere a lungo
le proporzioni del silenzio
quando qualcosa lo visita.
E ancora meno
quando niente lo visita.
L’uomo non può sostenere a lungo l’uomo,
e neppure quello che non è umano.
E tuttavia può
sopportare il peso inesorabile
di ciò che non esiste.
 Roberto Juarroz

mercoledì 20 aprile 2016

Le stelle e io

Brillano nella notte le stelle lontane
tristi come io son triste, come me insonni.
Da anni, loro e io, conosciamo notti di veglia;
quante notti, loro e io, senza posare il capo!
Ieri, all’alba, piangevano la mia sorte
vedendomi perso, infelice fra amici e nemici.
Mai avevo sentito per me tale affanno, mai,
sulla mia sorte, un pianto di nuvola che si disperde.
Lacrime di stelle! E credevo fosse solo rugiada.
Al vento ho chiesto di farsi dire il motivo di tanta tristezza.
Perché le stelle non sono come noi siamo,
le stelle, loro, stanno vicino al cuore di Dio.
E il messaggero tracciò sull’erba, con la rugiada,
“La fiamma del dolore dei Kurdi è salita fino al cielo,
il grido dei Kurdi del Nord è arrivato al cielo:
è l’ardore dei loro sospiri, che ci fa lacrimare”.
Piramerd
(da Canti d’amore e di libertà del popolo kurdo)

La nostra poesia è scritta con le lacrime

Nell’oscurità di anguste celle,
tra usci infami e solidi ferri
fra topi e scarafaggi
seminiamo la nostra parola,
e matura la nostra storia
irrigata dalle lacrime dei bambini
per il padre dietro le sbarre,
nutrita dal desiderio umiliato
delle giovani spose
cui il carcere ha tolto
ben presto l’amore.
La fantasia tesse nuovi racconti,
ricama con fili di lacrime,
con colori di sangue,
del sangue dei ragazzi e delle ragazze
che scorre eroico sui nostri monti,
su queste montagne kurde
e così continuano le nostre leggende
si intrecciano altre canzoni.
La nostra ispirazione non nasce
da labbra rosse dipinte,
da occhi e volti
elegantemente abbelliti:
da lacrime, sangue, desiderio
sorge la poesia
rinnova il nostro amore
e sospinta da un soffio leggero vola
oltre le sbarre.
Mehmet Emin Bozarslan
(da Canti d’amore e di libertà del popolo kurdo)

Quel fiore

Quel fiore-
gli hanno strappato i petali, ma è vivo
quel cuore-
nella sventura, è rimasto saldo
quella stella-
è caduta, con una scia di luce nella foresta
come chi sa morire con un sorriso
quando spalanca le ali
il vento dell'altopiano.
Li porto con me,
sono l'immagine
del non arrendersi.
Hejar 
(da Canti d'amore e di libertà del popolo Kurdo)

Epitaffio

Ieri sera a letto mi ero messo
dalla parte destra quella che occupa
lei quando è qui
e stamani svegliandomi mi son ritrovato
a sinistra di dove nel buio ascolto insonne talora
il battito possente del suo
esserci
Cosa mi ha indotto dunque durante la notte
ad abbandonare lo spazio del suo grande
corpo assente
se non l’ansia d’essere anche io
niente?
Giorgio Bassani (da Epitaffio, 1974)

Risveglio di primavera

Lo ha pregato di non scompigliare i riccioli,
di rimetterle in ordine il vestito
di non sgualcirlo fino all'indomani.
Poi gli ha detto di venire,
per quel momento ha già annotato nel diario: primo amore.

Andreas Okopenko

martedì 19 aprile 2016

Conchiglia

Davanti allo specchio
nella camera da letto dei miei genitori
c’era una conchiglia rosa.
Mi avvicinavo in punta di piedi
e con un movimento improvviso
la portavo all’orecchio.
Volevo coglierla in quel momento,
quando non si sente la nostalgia
con il suo monotono sussurro.
Sebbene fossi piccolo, sapevo che,
anche quando si ama molto qualcuno,
talvolta sopraggiunge l’oblio.
Herbert Zbigniew


La luce mutata

Non ci vediamo più nella stessa luce
Gli occhi e le mani non sono più gli stessi
L’albero è più vicino, più viva la voce delle fonti,
e più profondi i nostri passi, tra i morti.
 Dio che non sei, posa la mano sulla nostra spalla,
abbozza il nostro corpo col peso del tuo ritorno,
compi la fusione delle nostre anime agli astri.
Ai boschi, alle grida degli uccelli, alle ombre e ai giorni
 Rinuncia te in noi come si squarcia un frutto,
e noi cancella in te. Rivela il senso
misterioso
di ciò che è solo semplice
e senza fuoco cadrebbe in parole senza amore
 Yves Bonnefoy