Lunedì mattina
(23 marzo 1908)
Che avete, Guido, contro di me?
Vi sento fasciato di freddezza e di ostilità. Vi
avevo riservato libero il pomeriggio di mercoledì.
Non potete. Domani devo una visita a Mantovani.
Sarà breve: Voi attendetemi nella piazza del
monumento a Vittorio Em. sotto i portici presso
l’ufficio postale. Vi raggiungerò verso le cinque.
Prenderemo, se credete, una vettura e andremo
fuori. Bisogna ch’io vi guardi negli occhi e nel
cuore un momento... Amalia Guglielminetti
Martedì (24 marzo 1908)
Perché
mi fate piangere, Guido, perché mi fate rimpiangere quel poco che v’ho dato di
me?
Non dovevo venire con Voi quel giorno per soffrirne dopo, così,
per vedermi tolta anche la piccola dolcezza di sentirvi qualche volta vicino.
E così poca cosa la vita e così breve per negarci qualche poco della sua
bellezza per tormentarci volontariamente anche quella piccola parte di bene che ci
concede?
Voi
vi dite corazzato anzi insensibile ad ogni ferita. Io no, mio dolce Amico, o vi voglio bene e soffro crudelmente di sentirvi tanto lontano.
Mi pare di trovarmi più sola in quest’ombra grigia di banalità che ci circonda, sento d’aver smarrito qualche cosa di più leggero, di più chiaro, di più
elevato, l’amico che mi comprende, il fratello che sogna i miei sogni e gioisce della
mia gioia, la tenerezza che blandisce e riscalda il cuore.
Io
non voglio che tu mi sfugga, Guido, io non voglio che tu mi segua di lontano
come un estraneo, che tu mi riveda ancora un giorno lontano quando forse i miei
capelli non saranno più tanto bruni e la mia bocca fresca e i miei occhi
lucenti.
Lascia
ch’io ti dica tu come un compagno, ch’io non senta fra noi il gelo di quella
parola dura.
Io
ti sono compagna ora senza tremori e senza fremiti, sorella della tua anima.
Io ti saprei baciare la fronte con un sorriso sereno come si bacia un bambino.
No, noi non abbiamo ancora sepolto nulla di noi stessi.
Io sono per te come il primo giorno che ti vidi, non sazia, né stanca, né
oppressa dalla più piccola parte di te.
Sei nuovo e fresco al mio spirito come allora che m’eri ignoto.
Ogni
tua parola è come una piccola luce che ti rischiara un momento e ch’io guardo
risplendere con gioia nuova ogni volta che tu parli.
E un
senso strano ch’io non so dire, ma che non ho mai sentito per altri, una malia,
quasi, che è credo, una occulta profonda fraternità, un oscuro legame
spirituale che ci unisce anche nostro malgrado. Ma tu non provi questo fascino,
lo so, poiché mi respingi dopo alcune ore di comune vita, mi allontani con un
gesto che mi pare un urto di disdegno.
Forse io non sono stata con te, quel giorno, quella della tua attesa.
Fui rude, lo ricordo, violenta anche. Ma quale contrazione,
quale ribellione era in me, allora, davanti a quel nuovo tu che lottava
contro la mia volontà aspra di solitaria! Ma ricordo anche un momento di chiara
dolcezza, il mio volto chinato sul tuo, le mie labbra parlanti con franca
umiltà di cose umili e nascoste. Ma come puoi non volermi bene se mi rivedi
ancora in quell’atto? Nessuno, ti giuro, mi ha mai veduta così spoglia
d’orgoglio, così vestita di pura tenerezza. Tu solo che non mi ami, tu solo che
mi sfuggi.
Scrivimi che ci vedremo ancora quando e come il destino lo
vorrà, semplicemente, come due amici buoni che la fedeltà riconduce tratto
tratto l’uno all’altro. Ho bisogno di sentirti parlare, di te, di me, de’ tuoi
e dei miei sogni, del tuo e del mio avvenire, di tante cose piccole e grandi e
vane.
È così buona l’amicizia ed io non ho amiche vere, non ho
forse amici veri, non mi sento legata che a te.
Non voglio che ci cerchiamo con l’ansia del desiderio, ma che
ci vediamo naturalmente come vogliono le vicende della nostra vita.
Non farmi ancora piangere e rimpiangere, Guido, dammi ancora
le prove e se vuoi qualche segno di bontà in cambio di tutta la mia tenerezza.
Vieni a dirmi addio prima di lasciare Torino. Ci sapremo stringere le mani con
dolcezza ma senza fremito. Verrai?
Non dirmi, non dirmi di no...
Amalia Guglielminetti
30 marzo 1908
Rileggo
ogni giorno la tua lettera, mia buona Amalia, con una grande malinconia. E
indugio nella risposta, preso da un’indolenza dolorosa: forse perché non so
bene come dirti…
Da
molti giorni sono in casa ed ho l’anima morbosamente assopita, incerta di tutto
come in un sogno. Penso a tante cose, sopra tutto, avvenire; e penso anche a
te, con molta tenerezza e con molta serenità.
Sento
in fondo all’anima una specie di fiera tristezza, per aver saputo essere
crudele con me e forse — perdonami — anche un po’ con te…
Io
provo una soddisfazione speciale quando rifiuto qualche bella felicità che
m’offre il Destino. E quale felicità, Amica mia!
Il
nostro amore che sarebbe fiorito con tutti i fiori della primavera torinese!
(così dolce per l’esule che ritorna!) anche la stagione sarebbe stata propizia
alla nostra follia! E quanti mesi di serenità, di sole, di profumo! E quanti
sogni! Avremmo voluto pellegrinare la nostra passione in tutti i dintorni
favorevoli al sentimento: quanti sogni! Io li ho già sognati tutti e t’ho già
vista in tutti: con a sfondo i paesi sconosciuti, le viuzze di provincia dove
si sarebbe delineata al mio fianco la tua svelta parigina figura primaverile.
Io
non vedrò le tue vesti nuove. Sarò lontano, solo, con la mia ambizione
taciturna: una compagna ben più crudele della tua malinconia… Perché non
confessartelo, mia buona sorella? L’ambizione da qualche tempo mi artiglia in
un modo atroce.
Non
sento non vedo non godo non soffro di altro.
Come
puoi tu, che pure hai tra le mani i germi di mille speranze e segni la stessa
mia via, come puoi rivolgere ancora le forze della tua giovinezza verso altri
destini? Per me, camminando diritto, con l’occhio fisso alla mia meta lontana
(o quanto!) tutto è secondario e trascurabile: gioie e dolori: tutto, perfino
la tua bellezza sulla quale mi sono chinato un istante, come su un fiore, al
margine del sentiero, ma dalla quale mi separo tosto, perché arresterebbe di
troppo il mio passo tranquillo…
Ah!
Se io potessi darti una parte soltanto di questo mio orgoglio latente, anche il
dolore che tu dici di avere in te impallidirebbe e l’amore ti apparirebbe qual è:
un inganno della giovinezza e un episodio trascurabile in un destino come il
mio e come il tuo.
E
mai come in questi tempi che tale smania mi fa soffrire, ho avuto tanto
disprezzo per le mie attitudini artistiche e ho tanto sentito la necessità di
affinarle con lo studio, con la meditazione, col silenzio.
Tu
hai ancora l’avidità di cogliere fiori e di godere l’ora che passa: per me
anche la lusinga del piacere mi è intollerabile come un ostacolo sul mio
sentiero.
Amalia,
mio buon amico, quante di queste cose t’avrei detto e ti vorrei dire se tu non
fossi giovine e bella! Ma hai degli occhi luminosi ed una bocca tentatrice ed è
impossibile starti vicino senza diventare irriverenti con te come con una
crestaia od una cortigiana qualunque…
Ho
rilette queste sei pagine, amica mia: oimé! Parlo, parlo, e, sopra tutto,
ragiono: quanto devo farti soffrire! E anche sdegnare. Perdonami.
Perdonami.
Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai. E
non t’avrei amata nemmeno restando qui, pur sotto il fascino quotidiano della
tua persona magnifica; no: avrei goduto per qualche mese di quella piacevole
vanità estetico-sentimentale che dà l’avere al proprio fianco una donna
elegante ed ambita. Non altro. Già altre volte l’ho confessata la mia grande
miseria: nessuna donna mai mi fece soffrire; non ho amato mai; con tutte non ho
avuto che l’avidità del desiderio, prima, ed una mortale malinconia, dopo…
Ora
con te, che sei il più eletto spirito femminile ch’io abbia incontrato mai, e
con te che dici di amarmi, sono stato sempre e voglio essere ancora sincero:
non ti amo. E la risoluzione più leale da parte mia è il distacco. Partirei pur
non dovendo partire. Invece il Destino è propizio: m’impone l’esiglio anche per
altre cause ch’io tolgo a pretesto.
Rivederci?
A che scopo? Un colloquio di più nulla aggiungerebbe (o sottrarrebbe forse)
alla fraterna benevolenza che noi dobbiamo portare l’uno dell’altro.
Addio,
mia buona amica! Ti bacio.
Guido Gozzano
30 marzo 1908
Caro
Amico, vi pensavo più buono di quanto vi dimostrate.
Credevo
di meritare almeno una parola di risposta
se
vi pareva troppa concessione accordarmi una visita come vi chiedevo.
Un’amicizia
come la nostra non deve morire così fra la vostra indifferenza inerte e la mia
esasperata tristezza.
Perché
io non credo possibile per Voi e per me una fedeltà che resista alle lontananze
e agli oblii.
Siamo
entrambi troppo egoisti per i culti essenzialmente spirituali.
Mi
costringete a mendicare dagli amici vostri le vostre notizie con parola leggera
e anima febbrile.
Mi
costringete a mendicare da Voi una condiscendenza che non dovrebbe esservi
grave.
E mi
è duro, sapete, curvarmi così. Vorrei parlarvi di cosa che non posso affidare a
una lettera.
V’aspetterò
a casa mia mercoledì fra le quattro e le cinque, o, se preferite un luogo
aperto,
giovedì
alle tre e mezza laggiù a’ piedi della collina dove già v’ho atteso una volta
soffrendo.
Non
rispondetemi se vi pesa, ricordate solo ch’io v’aspetterò con intenso
desiderio,
e
che vi prego di venire.
Stamani
io scrivevo questo mentre tu forse aggiungevi per me tristezza a tristezza
nello
otto pagine della tua lettera.
Non
distruggo e non disdico il mio biglietto.
Ho
troppa sete di te per saziarmi delle tue parole amare.
Non
è vero ch’io abbia cose segrete a dirti, era una menzogna per indurti a venire.
Porta
pure con te la tua ambizione, la tua freddezza, la diffidenza che hai verso di
me.
Sarà
meglio, forse mi guarirai; ma non inasprire ancora il mio male con un rifiuto.
Se
anche non mi ami perché vuoi ch’io ti perda?
Perché
vuoi farmi sentire così nera così crudele la mia solitudine, così completo il
mio isolamento?
Ah!
la gloria, Guido, come ne sogghigno!
Io
non so come tu possa amare sognare darti a una così vacua cosa.
Io
voglio più bene a te che alla gloria, quella non mi farà mai piangere né
aspettare in ansia.
Amalia Guglielminetti