…Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare… io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare.

...solo un sogno, un'emozione...una nuvola...solo un alito di vento che ti sfiora, solo l'eco dei tuoi passi nella sera...

martedì 30 aprile 2013

Il mio cuore si gonfia per te, Terra

Il mio cuore si gonfia per te, Terra,
come la zolla a primavera.
Io torno.
I miei occhi son nuovi. Tutto quello
che vedo è come non veduto mai;
e le cose più vili e consuete,
tutto mintenerisce e mi dà gioia.
In te mi lavo come dentro un’acqua
dove si scordi tutto di se stesso.
La mia miseria lascio dietro a me
come la biscia la sua vecchia pelle.
Io non sono più io, io sono un altro.
Io sono liberato di me stesso.
Terra, tu sei per me piena di grazia.
Finchè vicino a te mi sentirò
così bambino, fin che la mia pena
in te si scioglierà come la nuvola
nel sole,
io non maledirò desser nato.
Io mi sono seduto qui per terra
con le due mani aperte sopra l’erba,
guardandomi amorosamente intorno.
E mentre così guardo, mi si bagna
di calde dolci lacrime la faccia.
Camillo Sbarbaro

DOW JONES: GIU'

come possiamo resistere? come possiamo parlare di rose o di Verlaine? questa è una banda affamata che ama lavorare e contare e conosce le leggi speciali, che ama sedere nei parchi pensando a cose prive di valore. qui è dove le cornamuse ferite suonano sulle scogliere gessose dove le facce impazziscono come viole bruciate dal sole dove scope e corde e torce vengono meno, schiacciando le ombre... dove muri crollano en masse. domani i banchieri fisseranno l'ora per chiudere i cancelli contro la nostra piena e sopraffare le acque; bang, bang il tempo, ricorda ora
i fiori si stanno aprendo nel  vento
e alla fine non importa
se non come una fitta alla nuca
quando tornati nella nostra vasta terra
morti nuovamente
camminiamo tra i morti.
Charles Bukowski

Sonetto 31 - Prezioso mi è il tuo cuore per tutti i cuori

Prezioso mi è il tuo cuore per tutti i cuori
che mancandomi consideravo come morti,
e ivi amor predomina con tutte le sue doti
e vivon quegli amici che pensavo ormai sepolti.
Quante sante rispettose funeree lacrime
un caro devoto amore ha strappato agli occhi miei
qual tributo a quei morti che or si svelano
memorie lontane che in te giacciono rinchiuse!
Tu sei la tomba ove sepolto vive l’amore
circondato dai ricordi dei miei passati affetti,
che ti hanno ceduto quanto di mio avevano -
quel che era di molti, ora è soltanto tuo:
in te io vedo le loro immagini che ho amato,
e tu con loro, hai tutto il tutto mio.

William Shakespeare

 

Può darsi

Può darsi che io non arrivi ad un certo giorno,
può darsi
che penzolando da un capo del ponte
lascerò cadere la mia ombra sull'asfalto...
E può darsi che, anche dopo quel certo giorno,
io sia ancora in vita, irsuto di bianco pelo...
Se sarò vivo dopo quel certo giorno,
appoggiandomi ai muri per la periferia della città
suonerò il violino e canterò una canzone
ai vecchi, intorno a me,
che, come me, saranno sopravvissuti all'ultima battaglia.
E dovunque volgerò l'occhio,
tutto sarà allegro, splendido,
e la sera stupenda,
e ascolterò il passo di gente nuova
che intona nuove canzoni.

Nazim Hikmet - 1930

L’invetriata

La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – c’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente.
Dino Campana (Canti Orfici)

Il Giardino dell'Amore

Sono andato al Giardino dell'Amore,
E ho visto quello che non avevo visto mai:
Una cappella era costruita lì in mezzo, 
Dove di solito giocavo sul prato. 
E i cancelli di questa Cappella erano chiusi,
E "Tu non devi" scritto sulla porta; 
Così mi volsi verso il Giardino dell'Amore 
Che tanti dolci fiori produceva; 
E vidi che era pieno di tombe, 
E pietre tombali dove dovevano esserci i fiori; 
E Preti in nere vesti vagavano intorno, 
circondando di rovi le miei gioie e i miei e desideri.

William Blake

 

La mia bohème (Fantasia)

Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
Anche il mio cappotto diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo leale;
Oh! quanti amori assurdi ho strasognato!
Nei miei unici calzoni avevo un largo squarcio. 
- Pollicino sognatore, nella mia corsa sgranavo 
Rime. La mia castello era sull'Orsa Maggiore. 
- Le mie stelle in cielo facevano un dolce fru-fru. 
Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade, 
Nelle calme sere di settembre in cui sentivo 
Sulla fronte le gocce di rugiada, come un vino vigoroso;
Oppure, rimando in mezzo a fantastiche ombre, 
Come fossero lire tiravo gli elastici 
Delle mie suole ferite, con un piede contro il cuore!
 Arthur Rimbaud

Dubiti Amore Mio?

Dubiti Amore Mio?
Temi forse che la mia timidezza
che viene dall’Amore, io non so come, sia
indifferenza.. NO.. ah, non pensarlo!
Io non ho l’osare nè l’ardore
di certe donne, tremo di me stessa
e del mio amore, e non lo so perché….
Ma ti amo…
Se ti amo perchè dubiti di me?
Ah Faust, se le parole
possono portare in sè l’anima,
se l’amore questo amore come io lo sento,
lo si può dire senza tentennamenti,
se quello che sento nell’animo a vederti
nell’avvertire i tuoi passi, nel pensare
a te, amore, a te; se gli sguardi, i baci
possono palesare l’amore, tutto l’amore:
devi credere che le mie parole, i miei baci,
il mio sguardo hanno quell’amore.
Se non riesco a gridare:
amore, amore, ardentemente e smisuratamente,
con la voce in fuoco,
è perchè dentro di me nasce un pudore
di dirlo troppo forte. (ma non credere
che sia perchè ti amo poco, che invece
è l’amarti molto, così come ti amo)
Se non lo faccio, non dubitare, no..
E più non so dire; non l’ho imparato,
perchè l’amore non parla, non può
raccontare se stesso, chè non sarebbe
amore, o almeno questo amore che sento.
Non so, non so dirtelo… Non dubitare!
Forse fredda sembro agli occhi tuoi;
ma non dubitare che soffra molto, molto
perchè tu dubiti.
Fernando Pessoa, Faust

mercoledì 17 aprile 2013

La primavera del mare

Anche il mare ha la sua primavera:
rondini all'alba, lucciole alla sera.
Ha i suoi meravigliosi prati
di rosa e di viola,
che qualcuno invisibile, là, falcia,
e ammucchia il fieno
in cumuli di fresche nuvole.
Si perdon le correnti
come pallide strade
tra le siepi dei venti,
da cui sembra venire, nella pioggia,
come un amaro odore
di biancospino in fiore.
E certo, nella valle più lontana,
un pastore instancabile tonde
il suo gregge infinito di onde,
tanta è la lana
che viene a spumeggiare sulla riva.
Corrado Govoni

Henry Miller scrive ad Anaïs Nin

Anaïs, sei stata tu a dare il via allo scorrere della linfa. Non sono più responsabile di ciò che dico e che faccio. Ascolta, riceverai la lettera e forse ne resterai delusa. È un così piccolo frammento di quello che avrei da dirti, e ancora mi manca il coraggio che dovrei avere. Perché, accidenti, perché? Tu mi hai dato il permesso. Ma te l’aspetti tutto quello che ho da dirti? Mi hai letto tutti i tuoi appunti – sì, sì c’è differenza fra ciò che dico e ciò che faccio, diciamo che c’era. Anaïs, vengo di continuo interrotto. Cercherò di continuare a casa. La gente intorno si incuriosisce del fatto che molto spesso io sia qui intento a scrivere. Pensano che io sia uno che va in cerca di punizioni. Mi chiedono perché non me ne vado a casa. Anaïs, potrei restare qui tutta la notte a scriverti. Ti ho continuamente davanti agli occhi, il capo chino, le lunghe ciglia abbassate. E mi sento umilissimo. Non capisco perché tu abbia dovuto scegliere me, non riesco a venirne a capo. Ma non ho voglia di andare troppo a fondo. Mi hai messo il fuoco dentro e adesso non potrò più essere quello che ero, semplicemente tuo amico. Ma sono mai stato soltanto tale? Ho l’impressione che fin dal primissimo inizio, da quando ho aperto l’uscio e mi hai porto sorridendo la mano, io sono rimasto preso, ero tuo. Anche June l’ha avvertito. Ha detto subito che eri innamorata di me o che io lo ero di te. Ma per quanto mi riguardava non ignoravo che fosse amore. Parlavo di te con calore, senza riserve. 
Henry

Quanto fu lunga la mia malattia

(Quanto fu lunga la mia malattia, e tanto amara la mia vita in quella fu stretta e spiegazzata come un cencio, e io pallido e stanco come un mondo intero dovessi sopportar tutto su la mia schiena, faticavo tanto, m’immaginavo mondi tutti assai più lievi e volatili di questo mio, che tanto m’affliggeva e tormentava, e vaneggiavo di nascoste verità e cieli quieti di pensieri chiari ove più mio l’animo affranto potesse dimorare, e non trovavo queste cose che non esistono, e soffrivo) Beppe Salvia da Cuore (cieli celesti)

I congedati

Sera affilata e secca
taglia come un coltello.
Unita la mia anima!
In un sempre si pianta:
il tempo,
che era sempre,
scisso: ieri, domani.
E quell’unica ombra,
sola, lungo la sabbia,
troncata in due:
tu e io.
A tratti secchi,
i venti firman
sentenze ultime
di settembre,
destini.
Qui è il tuo,
lì il mio.
Addii, senz’addio,
né fazzoletto.
Il ferro
dell’autunno la vita
ci scinde in due metà.
La vita
tutta intera,
dorata,
piena,
lassù che pende
da quel ramo d’agosto
dove tu la cogliesti.
Pedro Salinas

lunedì 15 aprile 2013

Lettera d'amore

Mio signore amato, non aver paura, non muoverti, resta in silenzio, nessuno ci vedrà.
Rimani così, ti voglio guardare, io ti ho guardato tanto ma non eri per me, adesso sei per me, non avvicinarti, ti prego, resta come sei, abbiamo una notte per noi, e io voglio guardarti, non ti ho mai visto così, il tuo corpo per me, la tua pelle, chiudi gli occhi, e accarézzati, ti prego, non aprire gli occhi se puoi, e accarézzati, sono così belle le tue mani, le ho sognate tante volte adesso le voglio vedere, mi piace vederle sulla tua pelle, così, ti prego continua, non aprire gli occhi, io sono qui, nessuno ci può vedere e io sono vicina a te, accarézzati signore amato mio, accarezza il tuo sesso, ti prego, piano, è bella la tua mano sul tuo sesso, non smettere, a me piace guardarla e guardarti, signore amato mio, non aprire gli occhi, non ancora, non devi aver paura son vicina a te, mi senti? sono qui, ti posso sfiorare, è seta questa, la senti? è la seta del mio vestito, non aprire gli occhi e avrai la mia pelle, avrai le mie labbra, quando ti toccherò per la prima volta sarà con le mie labbra, tu non saprai dove, a un certo punto sentirai il calore della mie labbra, addosso, non puoi sapere dove se non apri gli occhi, non aprirli, sentirai la mia bocca dove non sai, d'improvviso, forse sarà nei tuoi occhi, appoggerò la mia bocca sulle palpebre e le ciglia, sentirai il calore entrare nella tua testa, e le mie labbra nei tuoi occhi, dentro, o forse sarà sul tuo sesso, appoggerò le mie labbra, laggiù, e le schiuderò scendendo a poco a poco, lentamente, lascerò che il tuo sesso socchiuda la mia bocca, entrando tra le mie labbra, e spingendo la mia lingua, la mia saliva scenderà lungo la tua pelle fin nella tua mano, il mio bacio e la tua mano, uno dentro l'altra, sul tuo sesso, finché alla fine ti bacerò sul cuore, perché ti voglio, morderò la pelle che batte sul tuo cuore, perché ti voglio, e con il cuore tra le mie labbra tu sarai mio, davvero, con la mia bocca nel cuore tu sarai mio, per sempre, se non mi credi apri gli occhi signore amato mio e guardami, sono io, chi potrà mai cancellare questo istante che accade, e questo mio corpo senza più seta, le tue mani che lo toccano, i tuoi occhi che lo guardano, le tue dita nel mio sesso, la tua lingua sulle mie labbra, tu che scivoli sotto di me, prendi i miei fianchi, mi sollevi, mi lasci scivolare sul tuo sesso, piano, chi potrà cancellare questo, tu dentro di me a muoverti adagio, le tue mani sul mio volto, le tue dita nella mia bocca, il piacere nei tuoi occhi, la tua voce, ti muovi adagio ma fino a farmi male, il mio piacere, la mia voce, il mio corpo sul tuo, la tua schiena che mi solleva, le tue braccia che non mi lasciano andare, i colpi dentro di me, è violenza dolce, vedo i tuoi occhi cercare nei miei, vogliono sapere fino a dove farmi male, fino a dove vuoi, signore amato mio, non c'è fine, non finirà, lo vedi? nessuno potrà cancellare questo istante che accade, per sempre getterai la testa all'indietro, gridando, per sempre chiuderò gli occhi staccando le lacrime dalle mie ciglia, la mia voce dentro la tua, la tua violenza a tenermi stretta, non c'è più tempo per fuggire e forza per resistere, doveva essere questo istante, e questo istante è, credimi, signore amato mio, quest'istante sarà, da adesso in poi; sarà, fino alla fine...
Noi non ci vedremo più, signore.
Quel che era per noi, l'abbiamo fatto, e voi lo sapete. Credetemi: l'abbiamo fatto per sempre. Serbate la vostra vita al riparo da me. E non esitate un attimo, se sarà utile per la vostra felicità, a dimenticare questa donna che ora vi dice, senza rimpianto, addìo

Alessandro Baricco - Seta

La passione d'amore

Non si priva delle gioie del sesso chi evita di innamorarsi,
ne coglie anzi i piaceri senza averne a soffrire.
Chi é indenne dall’amore ne trae un piacere più puro
di chi ne è afflitto. Perché anche nel momento del possesso
si dibatte con smaniosa frenesia l’ardore degli amanti,
che non sanno cosa soddisfare per primi: se gli occhi o le mani.
Ciò che desiderano, lo tengono stretto procurando dolore
al corpo, conficcando spesso i denti nelle tenere labbra
e imprimendovi baci violenti. Segno che il loro piacere non è puro,
che uno spasimo segreto li porta a far male a quello stesso corpo,
qualunque esso sia, da cui nascono i germi della passione.
Ma per un attimo durante l’amore spezza Venere i suoi tormenti
e un piacere dolce si mescola ai morsi frenandone l’impeto.
La speranza è che il corpo stesso, da cui ha origine l’amore,
possa estinguerne la fiamma.
Ma la natura ci mostra che avviene tutto il contrario,
perché l’amore è l’unica cosa, che quanto più si possiede,
tanto più brucia il cuore di un desiderio irresistibile.
Il cibo e i liquidi si ingeriscono nell’organismo
e poiché occupano zone precise del corpo,
si soddisfa facilmente il desiderio di liquidi e cibi.
Viceversa dal volto, dal bel colorito di un essere umano
nessun appagamento viene al nostro corpo se non tenui
immagini: speranza misera che si dilegua spesso al vento.
Come nel sonno l’assetato prova a bere e non ha l’acqua
con cui estinguere l’arsura del corpo,
ma cerca parvenze di liquidi e inutilmente si dibatte
e in mezzo a un fiume in piena pur bevendo continua ad aver sete,
cosi in amore con vane parvenze Venere si fa gioco degli amanti,
che non riescono a saziarsi pur guardando da vicino il corpo amato
né possono con le mani strappare a quelle tenere carni
alcunché dibattendosi freneticamente per ogni parte del corpo.
E quando, infine, congiunti i loro corpi colgono il fiore
della vita, quando già il corpo pregusta il piacere
e Venere è sul punto di seminare i campi femminili,
stringono vogliosamente il corpo mischiando le salive
della loro bocca e ansimano premendo coi denti le labbra.
Ma tutto è inutile, perché nulla di lì possono strappare
né possono dissolversi nel corpo dell’amata con tutto il corpo.
Questo a volte sembra vogliano fare a ogni costo.
A tal punto stanno avvinti negli amplessi d’amore,
finché le membra si afflosciano spossate dalla forza del piacere.
E finalmente quando dalle viscere erompe il desiderio accumulato,
una breve tregua subentra per un po’ alla furia della passione.
Ma subito la rabbia di prima ritorna e la foia li riprende
e allora si domandano cosa sia mai ciò che desiderano
né sanno trovare un rimedio che possa vincere il loro male.
Così sgomenti sono consunti da un’oscura ferita.
Tito Lucrezio Caro

Eri per me quel tutto

Eri per me quel tutto, amore,
per cui si struggeva la mia anima,
una verde isola nel mare, amore,
una fonte limpida, un’ara
di magici frutti e fiori adornata:
e tutti erano miei quei fiori.
Ah, sogno splendido e breve!
Stellata speranza, appena apparsa
e subito sopraffatta!
Una voce del Futuro mi grida
“Avanti, avanti!”, ma è sul Passato
(oscuro gugite!) che la mia anima aleggia
tacita, immobile, sgomenta!
Perché mai più, oh, mai più per me
risplenderà quella luce di Vita!
Mai più – mai più – mai più –
è quel che il mare ripete
alle sabbie del lido – mai più
rifiorirà un albero percosso dal fulmine,
né potrà più elevarsi un’aquila ferita.
Vivo, trasognato, giorni estatici,
e tutte le mie notturne visioni
mi riportano ai tuoi grigi occhi di luce,
a là dove tu stessa ti porti e risplendi,
oh, in quali eteree danze,
lungo rivi che scorrono perenni.
Edgar Allan Poe

Quando ci lasciavamo

Quando ci lasciavamo, non ci pareva di separarci,
ma di andare ad attenderci altrove.
Cesare Pavese

Il presente sparisce e tu diventi memoria

Il presente sparisce e tu diventi memoria. Sgusci via da tutto, paure, sentimenti, desideri..
Li custodisci, come abiti smesssi, nell’armadio di una sconosciuta saggezza e di un’insperata pace. Riesci a capirmi? Riesci a capire come tutto questo sia bello?
Credimi, non è un modo, solo più dolce, di morire. Non mi sono mai sentita più viva di adesso. Ma è diverso. Quel che io sono, è ormai successo: e qui, e ora, vive in me come un passo in un’orma, come un suono in un’eco, come un enigma nella sua risposta. Non muore, questo no. Scivola dall’altra parte della vita. Con una leggerezza che sembra una danza. E’ un modo di perdere tutto, per tutto trovare. Se riesci a capire tutto questo, mi crederai quando ti dico che mi è impossibile pensare al futuro. Il futuro è un’idea che si è staccata da me. Non è importante. Non significa più nulla. Non ho più occhi per vederlo. Ne parli così spesso, nelle tue lettere. Io faccio fatica a ricordarmi cosa vuol dire. Futuro. Il mio, è già tutto qui, e adesso. Il mio sarà la quiete di un tempo immobile, che collezionerà istanti da posare uno sull’altro, come se fossero uno solo. Da qui alla mia morte, ci sarà quell’ìstante, e basta. Io non ti seguirò, Andrè. Non mi ricostruirò nessuna vita. Perchè ho appena imparato ad essere la dimora di quella che è stata la mia. E mi piace. Non voglio altro. Le capisco, le tue isole lontane, e capisco i tuoi sogni, i tuoi progetti. Ma non esiste più una strada che mi potrebbe portare laggiù. E non potrai inventarla tu, per me, su una terra che non c’è. 
Oceano mare - Alessandro Baricco

Miseria della poesia

Mi chiedo che posso farmene di te
adesso che sono passati tanti anni,
sono caduti gli imperi,
la piena ha travolto i giardini,
si sono cancellate le foto
e nei luoghi sacri dell’amore
sorgono negozi e uffici
(con nomi in inglese naturalmente).
Mi chiedo che posso farmene di te
e faccio una pseudopoesia
che tu mai leggerai
– o se la leggi,
invece di una fitta di nostalgia,
provocherà il tuo sorrisetto critico.
José Emilio Pacheco

Il ricordo

I
Il ricordo! Perenne rampicante
del fiore divino, che profuma
dolentemente quel che abbraccia!

II
Molteplice rete, che non sa,
nel suo frascame, se è
musica, profumo, colore, amore,
o morte!
Pioggia costante
- scheletro fiorito della fronte -
di rose, di stelle, di occhi, di ali,
con un pezzo d’infinito
arcobaleno!

III
Ricordo, amore che non muore mai,
con un incanto quasi in sogno;
amore che non muore mai, in un primo mattino
che resta così reale come il sogno;
amante sveglio,
luna del sole,
rete di nudi di stelle,
mare di onde di baci,
aurora bambina, in una cuna che culli,
senza che muoia mai, il tramonto!
Juan Ramon Jiménez

C’è un pianto dentro di me

C’è un pianto dentro di me: la vita
Urlando non lascia tracce verosimili,
sfigurata allaccia amore e morte,
nella notte ingrata al sonno.
Allora si pensa ai trascorsi inganni:
si sogna. Tutto quello che in pace
importa di più va combattuto,
respinto… Che ci sto a fare? A prendere congedo
Da stanche proposte di Re Musoni
Promettitori dei vani insulti al Dio,
o calamitosi al perché di vita
ignobile e incerta? Io piango
le tetre scalee di gioventù
ove il sorpasso della mente
ai giorni, all’ore estreme
era sembiante vivo
del nostro destinato incrociarsi
in terra seminata di freschi
virgulti, tenere silee
di speranza
inquieta nel suo sfarsi.
Dario Bellezza

Lettera non chiusa

Marito mio anche la tua ultima lettera è arrivata aperta, perciò ti mando risposta senza chiudere la busta. Questa non è una lettera aperta, da altri, ma una lettera non chiusa.
Mi scrivi per chiedere il divorzio e io te lo devo. Non credo che uscirò più dal carcere, tu invece presto potrai guadagnarti i permessi della mezza libertà. Hai scelto di staccarti dal nostro passato di soldati politici, hai scritto la tua pubblica promessa di “mai più”, che hai maturato in questi anni di gabbie. Hai chiuso dietro di te il tempo passato con l’impeto di un drogato che si consegna alla disciplina di una comunità di recupero. Così ti accoglierà il mondo di fuori, come un intossicato che impara l’astinenza.
Non posso fare come te, non posso seguirti, come pure era scritto nel patto di nozze. Non mi sento in convalescenza da febbri di malaria, non so ammettere di aver agito invano. Se è stato male quello che è uscito dalle mie mani e dai miei pensieri, allora è stato il male necessario, inevitabile come la siccità. Il lutto nostro e altrui è stato dolore obbligatorio. Non posso fare come te. La tua lettera è piena di vita possibile, da ricominciare: un’altra donna ti aspetta fuori. Avrai un impiego, tu che non sapevi fare niente, che sei passato dalla scuola alla lotta clandestina senza aver visto un ufficio di collocamento.
Stàccati pure, da qui dentro non me ne accorgerò. Vuoi un’altra donna, ma sarà una donna d’altri. Non perché è già stata con un altro uomo, a differenza di me che ho abbracciato solo te, ma perché chi non ha condiviso l’odio e la compassione politica, chi non si è battuto allora, o semplicemente non c’era, è un estraneo per noi, una persona altrui.
Il prete qui fa lezioni di catechismo e io ci vado per bisogno di ascoltare storie. Fino alla tua lettera non avevo pensato al senso del comandamento di non desiderare la donna d’altri. Dal tuo esempio riesco a capirlo: desideri la donna degli altri, quella del mondo contro cui abbiamo urtato e che ci ha rinchiusi. La desideri per ottenere la roba degli altri, una casa, un salario, le ferie, il voto. Te l’auguro, ti do la mia benedizione, che è il consenso di stracciare un foglio con i nostri nomi vicini. Non mi lusingare con il mondo di fuori, io non conosco altro luogo all’infuori di questo. Sono diventata donna qua dentro, non fra le tue lenzuola né in clandestinità. Ero ragazza allora e credevo che gli uomini fossero grandi. Non vedo più uomini, ma penso che non ce ne siano mai stati, che non siano esistiti degli uomini, all’infuori di mio padre. Eri ragazzo e  sei rimasto così, dài via tutto il tuo gruzzolo in cambio di un’automobilina, come facevi a scuola. La tua lettera crepita di speranzelle.
Irriducibile: anche tu scrivi questo di me. Sapessi invece come è riuscito a ridursi il mondo intero dentro il formato di scatoletta della mia cella, sapessi come l’intera vita si è accomodata nella miniatura della reclusione.. Lascia la parola irriducibile a quelli che ci hanno infilzato come farfalle ai loro aggettivi legali. Chiamami suora di clausura, senza velo né voto, chiamami alberello bonsai, radici attorcigliate in poco spazio. Credo al dio dell’affanno che dà conforto a chi si è tagliata la mammella dei figli, credo di scontare una vocazione e non una pena. Credo e credo e non avrò niente in cambio di questo, perché non è merce questo credo.
Ho pena per te, marito smarrito. Laverai piatti, picchierai tasti in un ufficio di informatica, avrai permessi, scriverai memorie e non pronostico altro se no vomito sul foglio. Tu e altri come te vi siete buttati sopra questa bigiotteria elettronica con l’entusiasmo di chi vuole dimostrare di saper collaborare alla modernità. Non è stato solo un lavoro l’elaboratore, ma la conquista di una licenza di cittadinanza. Il tuo zelo fa onore a quello di certi istituti che promettono agli studenti in ritardo di recuperare cinque ani in uno.
Fossi libera di uscire, andrei a bussare a un convento, a un muro qualunque. Chiederei di entrare e sbattere forte la porta. Non uscirò più: questa è la mia vita e non possono togliermi niente che non mi sia io stessa amputata. Ricordi che non dovevamo avere figli? Bisognava prima vedere il nostro governo nelle strade, solo allora era giusto mettere al mondo il nostro seme. Che figli fare mentre si è in guerra? Ora i figli sono appassiti nel mio ventre magro, il mondo di fuori non meli può più offrire, né me li può levare. Il mestruo di fine ciclo porta via il tempo dei figli, mese dopo mese, i crampi mi avvertono che il sangue è pronto per essere gettato al gabinetto.
Tu vomitasti il giorno dell’ammazzamento, ma a una donna non si muovono le viscere alla vista di un’emorragia. Ho avuto invece pena per il nemico rovesciato a terra, sporcato, ridotto a niente. Ho avuto pena per come era veloce il cambio tra la sua superbia di prima e la miseria dei rantoli. Non c’era di mezzo il tempo per scontare una condanna, che era già finito, già era un fagotto da sollevare con misericordia. Strano era ammazzare, non lasciava niente, uno squaglio di forze, una macchia in terra, la notizia che si sta sulla terra come lo sputo nel palmo.
Marito mio, mi scrivi che te lo sogni di notte, però questo ti succede da quando ti hanno spezzato le ossa nella rivolta del carcere. Prima dormivi bene. Ora sogni i colpi che hai sferrato tu al posto di quelli che hai preso. Lasciali stare i sogni, non dar loro importanza, sono zavorra del sonno. Ti ho amato, ma quella notte dopo l’ammazzamento ti ho anche voluto bene. Mi svegliai col tuo vomito addosso. Mi chiedevi scusa e io non capivo di cosa, singhiozzavi e io ero impastata delle tue viscere. Non fu brutto, te lo scrivo adesso, non fu brutto, le cose del corpo, anche la merda, non mi hanno mai disgustato. Vomitavi l’anima, i pensieri sbagliati del maschile, del guerriero sgomento delle sue reazioni, che si sentiva smentito da se stesso. Non era debolezza, non era fragilità, era il corpo semplice, un po’ di sudore, di febbre, di diarrea, nervi tesi da giorni e tutto il bisogno di credersi autorizzati ad ammazzare. Era vita meccanica che ti faceva quell’effetto, non c’entravano niente le virtù, i caratteri. Era sfogo, purga, nient’altro.
Tu invece ti vergognavi davanti a me. Volesti buttare le lenzuola, nessuno doveva sapere, mi pregavi di non dire niente ai nostri. Tu eri mio, se non ero io per te, chi lo era? Certo che non dicevo niente, perché non era niente. Non ti liberavi da quella stupida vergogna di aver vomitato, di averlo fatto a letto come la pipì da bambino.  Ma che ne sapevi tu, che conoscevi tu del sangue, del vomito, delle viscere rivoltate, di un ferro nel ventre che estirpava il figlioluzzo ancora pesce, che ne sapevi tu di com'era fatta la faccia di carne spaccata della vita?  Ci sono le donne per questo.
Tu sapevi dar voce ai tuoi pensieri, sapevi scrivere le parole esatte e feroci, sapevi fare il piano per ammazzare un uomo.  Ma poi veniva il pezzo di pelle che esplodeva, il piccolo tanfo chimico degli spari, i nervi sgangherati e la reazione scomposta del colpito, occhi abbagliati dalla morte, bava, sangue e tutta la spazzatura concreta dell'azione.  Che ne potevi sapere di quello? lo nemmeno sapevo, ma ero pronta e più che pronta da sempre: sono donna, macellaia, lavandaia, con le mani sempre a mollo in qualche zuppa.  Perciò allora fu bello il tuo vomito, non quello di oggi scritto su carta da cancelleria e firmato insieme a un giudice.  Prenditi pure la donna d'altri.
E adesso vattene da me, da ora non sei mio marito, non sei niente per me. Non mi mandare più notizie, non voglio più leggere lettere aperte. Sia fatta la tua vita e sia lasciata in pace la mia volontà.
 Erri De Luca
(Tratto dal libro “Decalogo – dieci scrittori raccontano i dieci commandamenti”, Rizzoli editori, 1997, Milano)

Dediche

Dedico questa poesia agli uomini con cui non sono andata mai a letto
ai figli mai avuti
alle poesie che nessuno scrisse
Dedico questa poesia alle donne che non amarono i loro figli
a quelle morte negli alberghi
senza nessuno ad abbracciarle
La dedico all’autore degli slogans scritti sui muri con le bombolette spray]
all’uomo e alla donna
al torturato anonimo
quello che neppure il suo nome pronunciò mai
Dedico questa poesia a quelli che gridano di dolore
alle partorienti
a coloro che urlano spaventati nelle stazioni degli autobus
e sotto le volte dei mercati
La dedico ai suicidi
ai poeti
che vivono dimenticati in qualche antologia
a quello che lava i cadaveri
alle donne che vanno a letto con tutti
a quelli che dormono sempre soli
Dedico questa poesia alle madrine
e ai padrini
che fanno all’amore e sono trasformati in pietra
a coloro che si lavano con una bacinella di zucca
il venerdì santo e sono trasformati in pesce
all’uomo che volle essere un avvoltoio
e a quelli che sognano di poter volare
Dedico questa poesia al Signore della Notte stellata
al Pappagallo di Fuoco
al Pianto delle Mosche
alla Pioggia Verde
al Guardiano del Miele
alla Fratellanza dei Fratellini
alla Maschera che Piange
alla Rude Lumaca di Terra
allo Scivolo dei Quattro Angoli
agli Unificatori di Corteccia per il Vino Cerimoniale
La dedico a coloro che suonano il flauto e il tamburo
quando vanno alla fonte a lavare i panni
alla donna che sguazza nelle cascate
e si bagna i capelli con acqua di iris
a quella che allatta il suo piccolo tra le canne
a quelli che cercano l’arcobaleno nella oleosa pozzanghera
ai vogatori che inventano il canto con le braccia
a quelli che lavano la farina di granturco sotto la pioggia
alle donne che trasportano l’acqua nei secchi
e camminano lungo la strada
Alla ragazzina che vede le lucciole
alla ragazzina con la lanterna in mano
ai ragazzini che saltellano con una torcia di stoppie
a quelli che corrono nel fuoco
e sotterrano i loro morti in cucina
cantando fra le macerie
all’uomo che imbroglia la sua stessa morte
nel suo letto di morte
a quello che scende dalle montagne
per non bruciarsi con le stelle
a quello che afferra la mano della morte per ballarci insieme
alle donne che hanno molte nuore
che portano iguane sulla testa
alle ragazze dai capelli ricci che vendono neve ai tropici
ai pescatori di gamberi che avvistano la cometa dell’alba
a quello che si rimbocca le maniche e chiede un’ascia
a quella che vende gnocchi di patate, di mumu e chipilìn
a quelli che tagliano pannocchie tenere e le mangiano nei campi
a quelli che legano la zampa del cane che ruba polli
ai ragazzi – ragazze che uccidono per amore
a quelli che si gettano nella fossa dove si seppellisce un amico
al poeta che non può scendere dal tetto
perché è troppo innamorato
e a quello che fa quello che può
Dedico questa poesia a queli che non frequentano
i caffè o le piscine
né sanno parlare al telefono
a quelli che non entrano in banca
né vanno in televisione
a quelli delle scuole serali
che ricevono lettere d’amore con errori di ortografia
e ai poeti che non cominciarono mai a scrivere
ai camerieri che inghiottono la loro dignità
alle donne in età che lavano i panni altrui
alle donne che non osano dire ciò che pensano
né alzare la voce
o essere felici senza il permesso di un uomo
a quelli che si gettano a terra
e ingoiano la lingua tra la folla
a quelle che dormono con il grembiule addosso
e pensano alle cose da fare
mentre i mariti vengono troppo in fretta
a quelle donne che si svegliano nel buio sotto tetti di palma
e fanno tortillas nelle capanne
a quella donna che si bruciò i capelli
sporcandosi la camicetta di carbone
a quelle che essiccano zucche su tetti di lamiera
e non hanno sedie
Agli uomini che cantano ai loro figli per addormentarli in tsotsil
e hanno le unghie sporche
agli spazzini
a coloro che falciano i prati con un machete
che seminano fichi d’India e mangiano tortilla con sale
al metronotte che lavora anche di giorno
a quella con le pantofole rotte
che rifà cento letti ogni mattina
al vecchio sdentato che vende gomma americana sulla spiaggia
a quelli che viaggiano in piedi verso le piantagioni di cacao
a quelle con le facce nere arse dal fuoco
e le cicatrici del pianto nella loro sordità
Io dedico questa poesia all’uomo incatenato
ai bambini maltrattai
ai figli degli alcolizzati
alle donne che accudiscono i bambini degli altri
ma vedono i propri ogni quindici giorni
a quella che lava i pavimenti della scuola privata
e non sa scrivere il suo nome
alle donne che mangiano alla mensa dell’ospizio
a quelli che dormono attorno al forno di una panetteria
agli uomini che puliscono i bagni pubblici
e spazzano le strade all’alba
alle donne che ballano nei cabaret
e sono stufe
Questa poesia è dedicata all’impastatore di mattoni
morto costruendo la casa di qualcun altro
al poeta con la bocca sigillata per sempre al suo funerale
a coloro che fuggirono di notte
quando la lava seppellì la loro chiesa
ai vicini che tempo fa sotterrarono i loro figli
uno dopo l’altro come gli anni che passano
a quelli che hanno dovuto vendersi i figli
il sangue e il sesso
e a quelli che non hanno più niente da perdere
Dedico questa poesia ai contadini senzatetto
che occupano le terre del padrone
che scavano tunnel sotto le banche
che danno fuoco alla sgranatrice
che non lasciano ombra
e fanno saltare i ponti senza luna
ai tredicenni che vanno alla guerriglia
e conoscono la loro prima donna da fuorilegge
tra i vulcani
Per i due feriti
le ragazze pelate
per l’opossum di Olga
Ai cani bastardi battuti coi bastoni
a quelli nati in paesi
dove la verità è illegale
che hanno preso un altro nome
e da anni non vedono la loro famiglia
a coloro che non hanno mai dormito nello stesso letto
e una fossa comune condividono
Io dedico questa poesia alla madre che cerca suo figlio all’obitorio
fra altre poesie decapitate
che non sa dire quale il suo corpo sia
e dice a ognuno di loro addio con un abbraccio.
Ambar Past

giovedì 4 aprile 2013

La cometa



Quel mio amore per lui aveva ali di cera –
lunghe le ali sembravano eterne –
battevano il cielo sicure, sfioravano picchi,
puntavano al sole con nervature nervine –
Fuse le ali ormai mi ricrescono dentro,
soltanto ora perdute mi diventano vere,
e ai cuori incauti grido: la passione è un fantasma
troppo importante, uomini, per potersi incarnare –
Chiomate vaganti comete di Halley, presagi
disastri prodigi che infiammano e gelano il sangue,
nessuno osi fissarvi, si arrischi a sfiorare
coaguli di pura lontananza – morgane
Maria Luisa Spaziani – 1986