«Quando
due si lasciano, non parte chi se ne va: parte chi resta. Chi se ne va
era partito già molto tempo prima. All’apparenza è lei a prendere la
nave, lei a muoversi: ma è un falso movimento, il suo; è come se fossi
io a camminare all’indietro, senza accorgermene. Per lei non c’è
partenza, è ferma nel suo nuovo amore – non cambia stato la sua anima,
quieto, alla fonda, il desiderio. È chi resta, invece, il solo a
partire, cambiare condizione, forma del vivere, giornate, veglie,
sussulti. È chi resta a non ritrovarsi più in quel posto, in quella
geografia conosciuta di carezze e pensieri, e deve spezzare, andarsene,
cambiar nome all’amore che non riconosce. È di chi resta l’unica
partenza».
Questo,
non altro pensiero, si muoveva a Saffo nel petto, la notte in cui
salutò Anattoria, l’achea, la bella e le intrecciò l’ultima ghirlanda
perché ricordasse, anche con quell’uomo. Un uomo gliela portava via: un
uomo e una nave. Da lì, da quella spiaggia di Mitilene, cento, mille ne
aveva viste passare di navi, e tutte da guerra.
«Gli
uomini vanno per mare perché sono come il mare, tempesta e passione,
onda incerta, dubbiosa: incerta pure la meta, e mai l’ultima. Gli uomini
sono quella rabbia senza fine di scoprire tutto, di insinuarsi ovunque,
come il mare, al falso, dolce carezzar di spuma, quando il vento del
cuore, a tratti, si placa; e del mare hanno l’inconsistenza, il lungo
canto illusorio e la violenza di tamburo battuto, fino al sacrificio. E
non hanno colore, come il mare. Perché il mare altro non è che il
riflesso del cielo, è un cielo capovolto: e in questo riflesso
attraversano al contrario la verità e la vita. E meno bastano a se
stessi, più devono avere cose: ricchezze, imperi, schiavi, potere. Di
nessun altro deve essere tutto ciò che non è loro: rompono, distruggono,
annientano quello che non possono avere. E il cielo. Forse il cielo
siamo noi. Noi non riflettiamo la luce, prendendo altrove colore, noi siamo
colore. Non muoviamo burrasche livide e impercorribili: siamo brevi
temporali o nere confessate agonie; ma di più, molto di più, tenero,
sconfinato azzurro e canto di culla, di lavoro e poesia. Ma forse sto
pensando così solo perché tu te ne vai. Penso così solo perché tu mi
lasci».
E
l’uomo era giovane, l’uomo era bello e l’avrebbe portata lontano, in
Lidia, a Sardi, danzando la groppa di cavalli pezzati, ed era bella
Anattoria, quella sera, alta nel lungo finissimo velo, struggente alle
pieghe di chitone e doppia la faccia, che guarda ora il mare, ora i
piedi di Saffo.
«Ti amo», disse all’improvviso Anattoria.
«Questo non avrà mai il tuo sposo: questo sapere
dell’amore. Mi sento morire all’idea delle sue carezze sulla tua pelle e
ancor più dei sorrisi, i tuoi, ai suoi ritorni. Non c’è musica, non c’è
rosso tramonto che mi possa quietare, non c’è un verso, uno solo, che
io possa riascoltare nella bellezza che aveva prima, quando lo confusi
all’incerto leggerlo della tua bocca sulle mie labbra. Non c’è un dio
che possa saettarmi o lavarmi d’acqua, non c’è Afrodite che possa
ridarmi, inimitabile, quel tuo fuoco: ma questo so, che per quanto lui
ti abbia, per quanto ti desideri, ti copra e frema; per quanto tu possa
aspettare, conosciuto al battito, i rumori dei suoi passi e respirare
nell’aria l’odore dell’assenza e dell’attesa, per quanto corra nelle
vostre vene sangue veloce e si tramuti in grido nell’attimo più bello:
tu non sei lui, e lui non è te. E invece io parlo ed è la tua voce,
muovo le mani e sono le tue, tuo il mio sguardo, i tuoi pensieri
crescono in me, e pure i sogni sono i sogni di Anattoria. E darei vita e
morte perché non mi straziassi di questa presenza. Esserti e non
averti: qui sta lo strazio, perché altro sarebbe averti, e mille volte
solo averti. Averti, stringerti fino a farti male, come farebbe un
soldato ubriaco, sordo agli strilli, poderoso all’assalto e fiume in
piena. No, no, questo no. Era soffio tra noi e tenerezza. Ma sovrumano e
così piccolo insieme è questo distacco: così in fondo alla terra, così a
tutti sconosciuto, un punto qualunque di dolore. Quando un uomo perde
un amore, perde solo qualcuno, qualcosa. A noi non è concesso: non te ne
vai tu sola, ma il mondo che abitavamo insonni, come gli dèi. Non perdo
Anattoria, perdo l’universo che eravamo. Staccatasi una parte, quel che
resta dell’animo non sa vivere a sé: si sgretola, si disfa, è polvere».
E
già d’altri rumori, altri suoni, voci, passi a danza, e già d’altre
risate era piena la spiaggia: giungevan di corsa le compagne a piedi
nudi, d’importuna felicità chiassose e unite in coro a festeggiar la
sposa.
La luna ebbe un sussulto, sparì d’un tratto e tutto parve oscuro sogno all’alba, quando hai ancor più paura.
«Ti amo», sussurrò Saffo camminando all’indietro.
Roberto Vecchioni, Viaggi del tempo immobile
2 commenti:
Io adoro il tuo blog.... sempre.
Silvy
Smack!
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