Umiltà non è affatto, in senso betocchiano, attaccamento alle piccole cose, «fedeltà alla vita», adesione all’immediatezza e alla gratuità dell’esistenza – scelte e atteggiamenti, peraltro, pienamente rispettabili, se non altro sul piano etico. Umiltà dev’essere, nel senso dei tragici greci, senso del limite, accettazione dei confini dell’umano; e accettazione, in pari tempo, quasi per una sorta di amor fati, della propria sorte, del proprio cammino, del proprio essere-nel-mondo – se vogliamo, del proprio “particulare”. Ora, fato del poeta è la forma a cui egli è chiamato, spazio del dicibile da cui è cinto il suo respiro, con i suoi ritmi, i suoi silenzi – le sue «svolte» direbbe Celan. Dante chiamava questo «il fren de l’arte» – limite, linea di confine, soglia sacra, e insieme termine e contorno che determinano la forma, che fanno essere il consistere della parola e del discorso. L’umiltà del poeta è la sua consapevolezza, la sua coscienza, il suo sapersi arrestare ai confini del dicibile, pur protendendosi a volte verso di essi fino al limite del loro oltrepassamento; limite sul cui crinale, a un passo dall’abisso del silenzio, sorge la parola, e trema il filo del canto. Nella sua umiltà è la sua grandezza.
(Matteo Veronesi)
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