Questo non avrà mai
il tuo sposo: questo sapere dell'amore. Mi sento morire all'idea delle sue
carezze sulla tua pelle e ancor più dei sorrisi, i tuoi, ai suoi ritorni. Non c'è
musica, non c'è rosso tramonto che mi possa quietare, non c'è un verso, uno
solo, che io possa riascoltare nella bellezza che aveva prima, quando lo
confusi all'incerto leggerlo della tua bocca sulle mie labbra. Non c'è un dio
che possa saettarmi o lavarmi d'acqua, non c'è Afrodite che possa ridarmi,
inimitabile, quel tuo fuoco: ma questo so, che per quanto lui ti abbia, per
quanto ti desideri, ti copra e frema; per quanto tu possa aspettare, conosciuto
al battito, il rumore dei suoi passi e respirare nell'aria l'odore dell'assenza
e dell'attesa, per quanto corra nelle vostre vene sangue veloce e si tramuti in
grido nell'attimo più bello; tu non sei lui, e lui non è te. E invece io parlo
ed è la tua voce, muovo le mani e sono le tue, tuo il mio sguardo, i tuoi
pensieri crescono in me, e pure i sogni sono i sogni di Anattoria. E darei vita
e morte perché non mi straziassi di questa presenza. Esserti e non averti: qui
sta lo strazio, perché altro sarebbe averti, e mille volte solo averti. Averti,
stringerti fino a farti male, come farebbe un soldato ubriaco, sordo agli
strilli, poderoso all'assalto e fiume in piena. No, no, questo no. Era soffio
tra noi e tenerezza. Ma sovrumano e così piccolo insieme è questo distacco:
così in fondo alla terra, così a tutti sconosciuto, un punto qualunque di
dolore. Quando un uomo perde un amore, perde solo qualcuno, qualcosa. A noi non
è concesso: non te ne vai tu sola, ma il mondo che abitavamo insonni, come gli
dei. Non perdo Anattoria, perdo l'universo che eravamo. Staccatasi una parte,
quel che resta dell'animo non sa vivere a sé: si sgretola, si disfa, è polvere.
Roberto Vecchioni, "Le partenze", in "Viaggi del tempo immobile"
Roberto Vecchioni, "Le partenze", in "Viaggi del tempo immobile"
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