…Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare… io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare.

...solo un sogno, un'emozione...una nuvola...solo un alito di vento che ti sfiora, solo l'eco dei tuoi passi nella sera...

martedì 29 novembre 2011

Il Tempo

Il tempo scorre, anzi: fugge. Il nostro tempo. Il mio. È ozioso chiedersi che cosa sia, l’aveva già compreso Sant’Agostino: «se nessuno me lo domanda, lo so; ma se qualcuno me lo chiede, non so cosa rispondere»; e allora: meglio non chiedere.
Mi domando piuttosto a che cosa serva, il tempo.
Rispondo: mi serve ad essere. Il tempo sono io. Io sono il mio tempo.
Se il tempo si sarà limitato a scorrere, io non sarò nulla.
Se avrò plasmato il mio tempo, sarò ciò cui ho dato forma.
È tutto qui, il mistero del tempo. Ed è terribile.
Perché il nostro tempo non ha più forme. Non posso accomodarmi in una bella figura scultorea, in un fulgido modello universale, in un tragico destino storico, in un impegnativo ruolo pubblico, in una chiara funzione sociale, in una rivoluzionaria missione politica, e poi mettermi in quiete.
Non ci crediamo più.
Poteva crederci un uomo antico, segnato dal destino, un Agamennone, un Oreste, un Edipo.
Poteva crederci un medievale, un Re Artù, un San Francesco, un Abelardo. Già ironizzava su se stesso un Don Chisciotte, vacillavano i Romeo e Giulietta, sprofondava nel vuoto un Amleto. Le ultime fiammate di poeti maledetti, di amanti romantici, di eroi nazionali, di dittatori feroci e deliranti.
E poi il vuoto. Per fortuna.
Nessuno ci insegnerà più come dare forma al tempo. Che intanto scorre, implacabile.
Dobbiamo farlo da soli. Senza modelli, ma nella disperata ricerca di una forma che resti. Perché se non resta, allora scorre.
E di nuovo siamo nulla.
Ci troviamo così nella poco invidiabile posizione di operai che debbano costruire un palazzo senza i materiali da costruzione. E senza un progetto. O meglio: il materiale c’è, ma è frantumato, sparso, rovinato. E progetti ce ne sono, sono infiniti, tutti esposti nelle vetrine delle vite possibili.
Ma vivere (lo sappiamo ancora?) non è fare acquisti.
Non c’è filosofo o narratore che non abbia percepito ed espresso questa condizione del nostro tempo. La Gelassenheit di Heidegger, la nausea di Sartre, l’ineffabile di Wittgenstein, il soggetto nomade di Deleuze, le identità fragili di Paul Auster (magnifico il suo Follie di Brooklyn).
Alasdair MacIntyre paragona l’etica contemporanea (poiché dar forma al tempo è l’impresa etica per eccellenza) al tentativo di ricostruire l’edificio del sapere partendo dai lacerti di una scienza perduta: brandelli di definizioni, pezzi di teoremi, schegge di sistemi teorici. Insensati.
Per noi, molte di quelle parole non avranno più un significato riconoscibile. Ma è tutto ciò che abbiamo. E aggirarci fra le macerie è il solo modo di cominciare.
Non serve confidare nelle «civiltà», nel loro scontro e nell’idea che, per contraccolpo, ritroveremo magicamente noi stessi nella guerra contro il Diverso, l’Altro, l’alieno.
L’Occidente è questa ricerca, questa pretesa di non irrigidire né me stesso né l’altro in un’identità assolutamente integra e inamovibile, vale a dire in un integralismo intollerante e assolutista. L’Occidente è il tempo che scorre, che non si arresta, che come Crono divora le proprie creature, per formarne sempre di nuove. Questo è la «Tecnica», il cosiddetto progresso, ovvero niente più che il ciclo costante di distruzione e produzione.
La nostra identità di «occidentali» è in movimento, è nel movimento: è in quella téchne tou biou, quella «tecnologia dell’esistenza», di cui ci parla Michel Foucault a proposito dei saggi dell’età stoica, di Seneca, di Marco Aurelio, di Plutarco: uomini vissuti in una transizione epocale, in un vuoto di forme così simile al nostro, ai margini delle illusioni e degli incubi di un secolo sanguinario.
Avere cura di sé, assumersi il compito di dare forma al tempo, presente e futuro: una forma mobile, dinamica, plastica ma non evanescente, riconoscibile almeno come una forma umana.
Nessuna ingegneria genetica avrà mai il permesso di privarci di questo. Il resto è affidato alle libertà e alle capacità creative, ai modi personali di dar figura a ciò che può restare. Perché vale, oltre il tempo, la capacità di esprimere la vita, in ogni sua forma.
Il tempo ci sfugge. Ma non fugge invano. È l’occasione, il kairós, il momento propizio.
Afferrarlo, carpirlo (carpe!) può significare distruggerlo o plasmarlo. Si illudeva il Faust di Goethe: fermare l’attimo è impossibile; ma viverlo, è un compito ineludibile.
Roberto Mordacci

Nessun commento: