…Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare… io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare.

...solo un sogno, un'emozione...una nuvola...solo un alito di vento che ti sfiora, solo l'eco dei tuoi passi nella sera...

venerdì 29 aprile 2016

Fiaba



Il quarantanove era il tuo numero magico.
Quarantanove questo.
Quarantanove quello. Quarantotto
porte nel tuo alto palazzo potevano essere aperte.
Ogni notte, dopo che eri andata via,
potevo scegliere tra quarantotto stanze.
Ma la quarantanovesima – ne tenevi tu la chiave.
Quella l’avremmo aperta, un giorno, insieme.
Andavi via: una vampata di capelli e un tuffo
nell’abisso.
Ogni notte. Il tuo amante Orco
che per tutto il giorno ritemprava le forze
dentro la morte, aspettava nel baratro
sotto le stelle frementi.
E io avevo quarantotto chiavi, porte e stanze
con cui giocare. Il tuo Orco
era la somma, stipata in una sola carcassa vudù,
di tutti i tuoi amanti passati –
quanti, chi, dove, quando
non lo dicesti mai neppure al tuo diario segreto.
Solo uno splendeva come un vulcano
lontano nella notte.
Ma io non guardai mai, non vidi mai
la sua effigie laggiù, che bruciava nelle tue lacrime
come fosse di catrame.
Come il lume da notte di un bambino addormentato,
consolava il tuo cosmo.
Nel frattempo, quell’Orco era più che sufficiente,
come se ogni notte tu morissi per stargli vicino,
come se volassi via nella morte.
Queste le tue notti. Di giorno,
sorridente, mi ascoltavi
raccontare le sorprese di questa o quella
delle quarantotto stanze.
La tua felicità rendeva soffice il letto.
Una fiaba? Sì.
Fino al giorno in cui gridasti nel sonno
(no, non fui io, come credevi,
fosti tu). Gridasti
il tuo male d’amore per quell’Orco,
la tua supplica gemente.
Coi capelli di ghiaccio, lo sentii echeggiare
per tutti i corridoi del nostro palazzo –
alto lassù fra le aquile. Finché lo sentii
battere alla quarantanovesima porta
come il mio cuore batteva contro le costole.
Un suono spaventoso.
Batteva a quella porta come il mio cuore
che cercava di uscire dal corpo.
L’indomani notte – dopo il tuo tuffo
per ritrovare quelle braccia
che si inarcavano verso di te dalla morte –
trovai quella porta. Col cuore che mi feriva le costole
aprii la quarantanovesima porta
con un filo d’erba. Tu non hai mai saputo
quale passe-partout avessi trovato
in un semplice filo d’erba. Ed entrai.
La quarantanovesima stanza si contorse tutta
al ruggito dell’Orco
che, sfondata la parete, si tuffò
nel suo abisso. Lo intravidi
mentre inciampavo
nel tuo cadavere e cadevo con lui
dentro il suo abisso.
Ted Hughes

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