…Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare… io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare.

...solo un sogno, un'emozione...una nuvola...solo un alito di vento che ti sfiora, solo l'eco dei tuoi passi nella sera...

lunedì 29 ottobre 2012

...

Vi "abbandono" per qualche giorno...
A presto!
L.

Tremo aspettando che tu mi scriva

(7 agosto 1916)
“Tremo aspettando che tu mi scriva. M’hai amato, quei giorni. T’ho avuto tutto nel primo sguardo, cosi interamente. Perché tremo? E l’ultima sera m’hai detto: “Tanto dubitavi di te?…”.
Oh, ma è la verità. Dino. Io, che non vorrei, che mai avrei voluto cambiarmi con un’altra creatura, io che so il mio valore, so anche tutta la mia miseria, so che se tu domani mi scrivessi che è stato un sogno, che ti sei svegliato, che non mi ami, troverei nel mio orrore da chinare il capo… Perché amarmi, tu? Anche oggi, che povere frasi sciocche devo averti scritto. Come quando t’ero accanto, che non sapevo che piangere o baciarti. E ho fatto piangere tanti dacché vivo. Che importa se per ogni lagrima che ho fatto scendere ne ho versate io stessa cento. C’è tanta ombra intorno a me. Puoi averlo sentito, puoi, dopo che son partita, averlo sentito, tu che sei fatto per il sole… Dino, Dino!
M’hai detto: “tu non dici: sempre, mai, come le altre”. Ma stasera mi sembra che mai io mi sia sentita davanti all’amore una cosi piccola cosa oscura. Dopo tutto quanto ho vissuto e voluto, dopo aver benedetto ogni sforzo e ogni martirio credendo ogni volta di crescere e d’adunar luce in me, come mi trovo davanti a te! E se tu sapessi il disprezzo che ho per queste stesse parole con le quali cerco come d’inginocchiarmi. Amore mio, solo questo. Tacere, non dovrei che tacere, aspettando. Bisogno di distruzione, dicevi… Come m’hai parlato del “nostro” lavoro, quell’ultimo mattino! Della cosa bella creata sotto il cielo dal fatto solo del nostro amore. – Senti i miei silenzi? – T’ho veduto staccato da tutti, libero come nessuno, e più umano ancora di me, oh Dino, ch’ero così sola a portar tutta la mia umanità. Ma più forte di me, anche. Più alto. So quel che dico. Che ti potrò dare? T’adoro. E sento tutta la mia impotenza, non faccio che pensare a te Dino, provo qualcosa di tanto forte che non so come lo reggerò… Sei tu che mi squassi cosi? Che cosa m’hai messo nelle vene? E sempre ho negli occhi quella strada col sole, il primo mattino, le fonti dove m’hai fatto bere, la terra che si mescolava ai nostri baci, quell’abbraccio profondo della luce. Dove sei, che mi sento cosi strappata a me stessa? Mi chiami, o m’hai dimenticata? Oh ti voglio ti voglio, non ti lascerò ad altri, non sarò d’altri, per la mia vita ti voglio e per la mia morte, Dino, dopo questo non si può esser più nulla, oh, sapere che anche tu lo senti, che rantoli anche tu cosi. Mi aspetti, dimmi, mi aspetti, vero?Ti desidero e ho bisogno di te, saremo soli sulla terra. Bruceremo. Hai visto che siamo vergini, che qualcosa non ci fu mai strappato? Per noi. Più a fondo, più a fondo, ci mescoleremo allo spazio, amore mio. Dimmi che mi manca cosi il respiro perché mi chiami, perché mi vuoi……
Ti amo
Sibilla Aleramo a Dino Campana

domenica 28 ottobre 2012

Se puoi vedermi

Madre: è la tua creatura abbandonata che ti chiama,
che abbatte la notte con un grido e la getta ai tuoi piedi come
               un sipario calato
affinché tu non rimanga là, dall’altra parte,
dove riesci soltanto con le tue mani di cieca a decifrarmi
in mezzo a un muro di fantasmi fatti di cieca argilla.
Madre: neanch’io ti vedo,
perché adesso sei coperta dalle gelide ombre del tempo minore
                   e la distanza massima,
e io non so cercarti,
forse perché non ho saputo imparare a perderti.
Ma sono qui, sul mio piedistallo spaccato dal fulmine,
divenuta statua di sabbia,
manciata di ceneri perché tu scriva su di me il segnale,
i segni mediante i quali torneremo a capirci.
Sono qui, con i piedi impigliati nelle radici del mio sangue
            in lutto,
senza poter andare avanti.
Allora cercami tu, in mezzo a questo bosco allucinato
dove ogni scricchiolio è il tuo gemito;
i colpi d’ala, una richiesta d’esilio che mi sfugge;
ogni cristallo di neve è un frammento della tua eternità,
e ogni bagliore il lume che accendi affinché io non mi perda nei
             cunicoli di questo mondo.
E tutto si confonde.
E la tua vita e la tua morte si mescolano con le mie come le
            maschere negli incubi.
E non so dove sei.
Invano ti invoco in nome dell’amore, della pietà o del perdono,
come chi accarezza un talismano,
una pietra che racchiude quella goccia di sangue rappreso
capace di risorgere nel più impossibile dei sogni.
Niente. Solamente un artiglio di feroce tristezza che apre la tela
                 di altri anni
per riscoprire un tavolo dove tagli il pane di ogni giorno,
una stanza dove lisci con le pazienti mani quelle grinze
che mi incidono l’anima di febbre e di terrore,
un salone che a un tratto si fa bello per il rito di guardarti
            passare
avvolta in un alone di fiera tenerezza,
un letto in cui torni dalla morte solo per non darci troppo
            dolore.
No. Io non voglio guardare.
Non voglio imparare di nuovo il nome della gioia nel momento
stesso in cui il suo volto è deturpato dagli enormi buchi,
né sentire che il tuo corpo ferma ancora quella disperata
    corrente che lo porta via,
un’altra volta ancora,
per circondarmi come fosse per sempre di conforto e d’addio.
Non voglio sentire il rumore del vetro che si infrange,
né i cani che abbaiano alle bende sinistre,
né vedere come non ci sei.
Madre, madre, chi divide il tuo sangue dal mio?,
cos’è questo che si spezza come una corda tesa che batte nelle
                   viscere?,
che grande pianeta infausto rovescia la sua ombra sopra tutti gli
                anni della mia vita?
Oh, Dio! Tu eri tutto quel che sapevo di quel dimenticato paese
                    da cui provengo,
eri come il rifugio nella lontananza,
come un battito nelle tenebre.
Dove cercare adesso la chiave sepolta dei miei giorni?
Chi interrogare sull’indecifrabile mistero delle mie ossa?
Chi mi ascolterà se tu non mi ascolti?
E nessuno mi risponde. E ho paura.
Le stesse paure di questi trent’anni.
Perché giorno dopo giorno qualcuno si maschera e gioca dentro
               di me alle allucinazioni e alla morte.
Io gli cammino accanto e spingo con la sua mano quest’ultima
                       porta,
quella che la mia nascita non riuscì a chiudere
e che io stessa sorveglio vestita con un abito da sentinella
                                                                               funeraria.
Lo sai? Sono arrivata molto lontano questa volta.
Ma nel coro di voci che suonano come un mare sepolto
Non c’è quella voce di foglia cupa sempre lacerata dall’amore o
                                                                                  dalla collera;
nelle processioni che improvvisamente s’accendono come
        lampade fulminee
non vedo illuminarsi quel colore di spuma dorata sotto il sole;
non c’è nessuna raffica che mi bruci gli occhi col tuo odore
            di resina;
nessun calore mi circonda con quella compassione che hai dato
                      alle mie ossa.
Allora, dove sei?, chi ti impedisce di venire?
So che se tu potessi accarezzeresti la mia testa d’orfana.
Eppure so inoltre che non puoi essere ancora tu sola,
qualcuno che persevera nella propria memoria,

l’imbalsamata attorno alla quale girano come corvi i poveri
         brandelli di lutto da essa alimentati.
E se anche rispetti la tremenda condanna di non poter accorrere
                        al mio appello,
altrove senza dubbio organizzi di nuovo la famiglia,
o metti in ordine le mie ombre,
o tagli quei rami di brina che ornano il tuo grembo per lasciarli
             accanto a me un giorno,
o cerchi di cucire con un filo infinito la grande ferita del mio
                                                                                    cuore.
Olga Orozco

Estasi

Nei tuoi pensieri tutto il giorno, tu nei miei.
Gli uccelli cantano al riparo di un albero.
Sopra la preghiera della pioggia, un blu sterminato,
non il paradiso, che non va da nessuna parte, senza fine.
Perché mai le nostre vite si allontanano
da noi stesse, mentre rimaniamo intrappolate nel tempo,
in fila verso la morte? Sembra che nulla possa mutare
lo schema dei nostri giorni
, alterare la rima
data da lutto in assonanza con diletto.
Poi sopraggiunge l’amore come un volo lesto di uccelli
dalla terra al paradiso dopo la pioggia. Un tuo bacio,
rievocato, sfila, come fossero perle, questa catena di parole.
Cieli immensi ci congiungono, unendo qui a lì.
Desiderio e passione nell’aria che pensa. 
 
Carol Ann Duffy

Lasciami venire con te

Lasciami venire con te. Che luna stasera!
La luna è buona – non si vedrà
che si sono imbiancati i miei capelli. La luna
me li farà di nuovo biondi. Non te ne accorgerai.
Lasciami venire con te. [...].
Ci sederemo un poco sul muretto, sull’altura,
e rinfrescandoci al vento di primavera
forse immagineremo pure di volare,
perché spesso, e perfino ora, sento il fruscío della mia veste
che pare il battito di due ali forti,
e quando ti chiudi in questo rumore del volo
senti irrigidirsi il collo, i fianchi, la tua carne,
e cosí stretto nei muscoli del vento azzurro,
nei nervi robusti dell’altezza,
non ha importanza che tu parta o torni
né conta che i miei capelli siano bianchi,
(non è questo che mi dà pena – mi dà pena
che non mi s’imbianchi anche il cuore).
Lasciami venire con te.
Lo so, ciascuno cammina da solo verso l’amore,
solo verso la gloria e la morte.
Lo so. L’ho provato. Non giova a niente.
Lasciami venire con te. [...].
 
Ghiannis Ritsos 
da "Delfi. La sonata al chiaro di luna"

Mentre la neve si struggeva, i monti

Mentre la neve si struggeva, i monti
si son fatti lontani.
E verde la campagna
che al sole dell’aprile
corre una verde fiamma,
la vita, che non pesa;
e pensa l’anima ad una farfalla,
atlante che sorregga il mondo, e sogna.
Con il susino in fiore e i campi verdi,
con l’azzurrino fumo della riva
intorno ai rami, con
il primo biancheggiare dei roveti,
a questo dolce soffio
che trionfa della morte e della pietra,
l’amaro che mi soffoca si scioglie
in speranza di lei...
Antonio Machado

sabato 27 ottobre 2012

Chi ama non respinge

Chi ama non respinge.
La vita non finisce certo domani.
Smetterò di aspettarti,
e tu arriverai all’improvviso.
E tu arriverai quando è buio,
quando la tempesta di neve batterà al vetro
quando ricorderai come da tanto
non ci riscaldavamo a vicenda.
E così forte sarà il desiderio del calore,
allora non amato,
che non potrai aspettare la fila
di tre persone al telefono pubblico.
E, come per picca, striscerà
il vagone del tram, del metrò, e non so cos’altro…
E la tempesta di neve ricoprirà le strade
sulle lontane vie d’accesso al portone…
E nella casa regneranno tristezza e silenzio,
l’ansimare del contatore e il fruscio delle pagine,
quando busserai alle porte,
salito di corsa in un fiato.
Per questo si può dare tutto,
e a tal punto ci credo,
che mi è difficile non aspettarti,
tutto il giorno senza staccarmi dalla porta.
Veronika Tushnova

Niente è crudele come l’amore

Il mio cercarti, il tuo cercarmi, è la ricerca di ciò che non può essere trovato. Solo l’impossibile vale lo sforzo. Quel che perseguiamo è l’amore in sé, che talora si rende manifesto in forma umana, ma solo per spingerci oltre la nostra umanità, verso l’istinto animale o la gloria divina. L’amore che perseguiamo è più forte della natura umana: ha in sé una sfrenatezza e una magnificenza a cui aneliamo più che alla vita stessa. L’amore non calcola il rischio, né per sé, né per gli altri. Niente è crudele come l’amore. Non esiste amore che non trafigga mani e piedi. Il semplice amore umano non ci appaga, anche se ce lo facciamo bastare. E’ come se ci accampassimo ai margini di un campo di grano: accendiamo fuoco e lume fino a notte alta e raccontiamo le storie di questi amanti perduti e vinti. I campi di grano non si addomesticano. Attende, bello e terribile, in agguato dove il fuoco del bivacco non può arrivare. Qualcuno, spinto dall’assillo di leggere la mappa di se stesso, di quando in quando si alza e se ne va, sperando che il tesoro sia nascosto veramente più oltre, in attesa. Per amore vale la pena vivere. Il mio cercarti, il tuo cercarmi, vanno oltre per trasformarsi in un alto grido nel campo di grano. Non so se quello che sento è una risposta o un’eco: forse non sentirò nulla. Ma non importa.
Questo viaggio si deve fare.
Jeanette Winterson

Voi liberate in me il mio essere femminile

LETTERA SECONDA

19 giugno, di notte
Voi liberate in me il mio essere femminile, il mio essere più oscuro e recondito. Non per questo vedo peggio. Tutta la mia chiaroveggenza intatta con, in più, il beato diritto alla cecità.
Mio tenero (che mi fa...), con tutto il mio essere indivisibilmente doppio, doppiamente e indissolubilmente uno, con tutto il mio essere di spada a doppio taglio (dotata di una rassicurante virtù: ferire me soltanto) io voglio in voi, in-voi, come nella notte. "Strofe e sogni" — più semplicemente: leggere e dormire. (Le parole che voi lasciate cadere, io le conservo tutte.) Quanti hanno visto in me soltanto delle strofe!
Tutto con l'anima, amico, e tutto — indietro, nell'anima. (Un getto d'acqua che si autoalimenta. Le fontane del Re Sole.) La pelle come tale non esiste. Voi, voi lo sapete, con il vostro fiuto animale, fiuto geniale. Pelliccia, manto — non solo delle bestie, ma anche delle piante: pino, abete, il mio amatissimo ginepro...
E se debbo dirvi in colori, voi siete bruno. Come i vostri occhi.
Caro, non ho mai scritto a nessuno lettere simili (da quando tengo in mano la penna, — no, da quando la penna mi tiene, — no, dal tempo lontano delle mie piume d'angelo — sempre, a tutti. E tuttavia — credetemi).
Uomo, io so tutto, vi so superficiale, leggero, vuoto, ma la vostra animalità profonda mi tocca più in profondità di altre anime. Sapete così bene aver freddo, aver caldo, aver fame, aver sonno. Senza il vostro vuoto c'è il vuoto che possiamo immaginare soltanto pieno di astri o di atomi, e cioè popolato di mondi viventi. Siate vuoto finché lo vorrete, finché lo potrete — io sono la vita che non patisce il vuoto.
Bambino mio (permettetemi di chiamarvi così...), mio piccolo ragazzo! Se a volte non vi rispondo direttamente, è che ci sono parole che non devono essere pronunciate tra certi muri, che nemmeno l'aria, tra certe pareti, può tollerare. I muri, invece, sopportano tutto e non soffrono di nulla, ed è l'unica cosa che io non posso soffrire, e sono loro che più mi fanno soffrire. Giacché, sappiatelo: quella che voi ritenete creatura di parole per eccellenza, nelle grandi ore della sua vita è una spartana con il suo volpacchiotto. (Lasciatemi scherzare un po': con tutta una cucciolata di volpacchiotti!)
Siete iperamato (iperalimentato d'amore) nella vita? Probabilmente sì. Ma quello che so (doveste anche sentirlo per la millesima volta!) è che mai nessuno (nessuna!) vi ha così... Ogni millesima volta ha la sua milleunesima. Così, per me, non è una misura di peso, né di quantità, né di durata, è un valore di qualità: di identità. Io non vi amo né tanto, né a tal punto, né fino a... — io vi amo così. (Non vi amo tanto, vi amo come.) Oh, molte donne vi hanno amato e vi ameranno con maggior forza. Tutte — di più. Nessuna — così. Se il mio amore resta unico nelle vite, è solo per la sua doppia identità: con l'amato e con me stessa. Per questo non viene mai preso per amore.
"Amatemi grande, amatemi bello, amatemi diverso!" Per quanto mi riguarda, ho sempre voluto e addirittura preteso di essere amata come sono — per ciò che sono — perché sono. Non per ciò che, secondo voi, potrei, dovrei, avrei dovuto essere. Che si ami me e non l'essere ideale e falso partorito dalla fantasia di un poeta di terz'ordine e dell'ultima ora che può essere così folle d'amore solo se non è poeta nato, pensatore nato. Ho sempre preferito essere fotografata, riflessa, ripetuta, maltrattata da quell'indifferente che è l'obiettivo, piuttosto che ritratta — cioè ben trattata, idealizzata, animata, da un pittore di cui non sono neanche sicura che abbia un'anima, e che spesso è solo una mano mossa da una sola — sempre la stessa — mania.
Non trattatemi peggio di quanto la natura abbia fatto — e di quanto lo specchio non faccia — è tutto quello che, in piena umiltà, io chiedo al pittore e all'amante. "Ogni volto non è che un punto di partenza." Giusto, ma avete un'idea della mia (della sua) direzione? Di quello che sarebbe realmente stato di me, di dove sarei realmente arrivata, se... Riuscite a seguirmi — voi che mi volete superare per indicarmi la direzione giusta? Un grande maestro può creare l'ideale: ciò che doveva essere, la realtà in potenza. Alta realtà. Gli altri, i petits-maîtres dell'arte e dell'amore, possono fare (dipingere, amare) soltanto dal vero. E voi — voi fate me, se potete.
Ho sempre preferito essere conosciuta e odiata piuttosto che inventata e amata. Fissatemi con tutta la forza del vostro sguardo, oppure andate a 'creare' una donna qualunque, la vicina di casa, che potrà esservi solo riconoscente e si riconoscerà in ognuno dei vostri 'ritratti' perché lei — lei non si conosce, per il semplice motivo che in lei non c'è nulla da conoscere. È il nulla che si presta a tutte le forme. Quanto a me, sono già creata, ed è stato Dio a crearmi. È sufficiente un'unica creazione. È sufficiente quel Creatore.
Io mi identificherei unicamente nell'amore di chi mi avesse scelta fra tutte le creature passate, presenti, future, maschili, femminili — creature dell'acqua, del fuoco, dell'aria, della terra, del cielo. E fra tutte le altre ancora, giacché esistono altri pianeti!
Così sono io. Se vi do pena — perdonatemi di essere. 
Marina Cvetaeva - Le notti fiorentine 
(Le epistole sono dedicate ad Abram Vishnjak, fondatore della casa editrice Gelikon, che negli anni ‘20 aveva pubblicato alcuni versi di Marina Cvetaeva)

Ma se tu ora non mi abbracci

Stasera stringimi
non per il freddo, non per morsi di solitudine,
abbracciami e basta, senza dire niente
senza sciupare il bisogno di sognare,
tu avvicinati e abbracciami.
Sarà come catturare stelle
ai piedi del cedro
o correre sui fili di un ricordo
che potremmo costruire ora
da ricordare, di noi, in un giorno lontano
di quel bisogno che avevamo
di essere odore, mani, labbra e tenerezza
per i nostri timidi peccati.
Ma se tu ora non mi abbracci
e non mi scaldi
cosa ricorderò io di noi,
domani?
Beatrice Niccolai

Francesco De Gregori - L'InFinito

E non guardare il tempo
Il tempo non ha senso
Domani sarà tempo
Di cose nuove

venerdì 26 ottobre 2012

Carteggio


Lunedì mattina (23 marzo 1908)
Che avete, Guido, contro di me? Vi sento fasciato di freddezza e di ostilità. Vi avevo riservato libero il pomeriggio di mercoledì. Non potete. Domani devo una visita a Mantovani. Sarà breve: Voi attendetemi nella piazza del monumento a Vittorio Em. sotto i portici presso l’ufficio postale. Vi raggiungerò verso le cinque. Prenderemo, se credete, una vettura e andremo fuori. Bisogna ch’io vi guardi negli occhi e nel cuore un momento... Amalia Guglielminetti

Martedì (24 marzo 1908)
Perché mi fate piangere, Guido, perché mi fate rimpiangere quel poco che v’ho dato di me?
Non dovevo venire con Voi quel giorno per soffrirne dopo, così,
per vedermi tolta anche la piccola dolcezza di sentirvi qualche volta vicino.
E così poca cosa la vita e così breve per negarci qualche poco della sua bellezza per tormentarci volontariamente anche quella piccola parte di bene che ci concede?
Voi vi dite corazzato anzi insensibile ad ogni ferita. Io no, mio dolce Amico, o vi voglio bene e soffro crudelmente di sentirvi tanto lontano.
Mi pare di trovarmi più sola in quest’ombra grigia di banalità che ci circonda, sento d’aver smarrito qualche cosa di più leggero, di più chiaro, di più elevato, l’amico che mi comprende, il fratello che sogna i miei sogni e gioisce della mia gioia, la tenerezza che blandisce e riscalda il cuore.
Io non voglio che tu mi sfugga, Guido, io non voglio che tu mi segua di lontano come un estraneo, che tu mi riveda ancora un giorno lontano quando forse i miei capelli non saranno più tanto bruni e la mia bocca fresca e i miei occhi lucenti.
Lascia ch’io ti dica tu come un compagno, ch’io non senta fra noi il gelo di quella parola dura.
Io ti sono compagna ora senza tremori e senza fremiti, sorella della tua anima.
Io ti saprei baciare la fronte con un sorriso sereno come si bacia un bambino.
No, noi non abbiamo ancora sepolto nulla di noi stessi.
Io sono per te come il primo giorno che ti vidi, non sazia, né stanca, né oppressa dalla più piccola parte di te.
Sei nuovo e fresco al mio spirito come allora che m’eri ignoto.
Ogni tua parola è come una piccola luce che ti rischiara un momento e ch’io guardo risplendere con gioia nuova ogni volta che tu parli.
E un senso strano ch’io non so dire, ma che non ho mai sentito per altri, una malia, quasi, che è credo, una occulta profonda fraternità, un oscuro legame spirituale che ci unisce anche nostro malgrado. Ma tu non provi questo fascino, lo so, poiché mi respingi dopo alcune ore di comune vita, mi allontani con un gesto che mi pare un urto di disdegno.
Forse io non sono stata con te, quel giorno, quella della tua attesa.
Fui rude, lo ricordo, violenta anche. Ma quale contrazione, quale ribellione era in me, allora, davanti a quel nuovo tu che lottava contro la mia volontà aspra di solitaria! Ma ricordo anche un momento di chiara dolcezza, il mio volto chinato sul tuo, le mie labbra parlanti con franca umiltà di cose umili e nascoste. Ma come puoi non volermi bene se mi rivedi ancora in quell’atto? Nessuno, ti giuro, mi ha mai veduta così spoglia d’orgoglio, così vestita di pura tenerezza. Tu solo che non mi ami, tu solo che mi sfuggi.
Scrivimi che ci vedremo ancora quando e come il destino lo vorrà, semplicemente, come due amici buoni che la fedeltà riconduce tratto tratto l’uno all’altro. Ho bisogno di sentirti parlare, di te, di me, de’ tuoi e dei miei sogni, del tuo e del mio avvenire, di tante cose piccole e grandi e vane.
È così buona l’amicizia ed io non ho amiche vere, non ho forse amici veri, non mi sento legata che a te.
Non voglio che ci cerchiamo con l’ansia del desiderio, ma che ci vediamo naturalmente come vogliono le vicende della nostra vita.
Non farmi ancora piangere e rimpiangere, Guido, dammi ancora le prove e se vuoi qualche segno di bontà in cambio di tutta la mia tenerezza. Vieni a dirmi addio prima di lasciare Torino. Ci sapremo stringere le mani con dolcezza ma senza fremito. Verrai?
Non dirmi, non dirmi di no...
  Amalia Guglielminetti

30 marzo 1908
Rileggo ogni giorno la tua lettera, mia buona Amalia, con una grande malinconia. E indugio nella risposta, preso da un’indolenza dolorosa: forse perché non so bene come dirti…
Da molti giorni sono in casa ed ho l’anima morbosamente assopita, incerta di tutto come in un sogno. Penso a tante cose, sopra tutto, avvenire; e penso anche a te, con molta tenerezza e con molta serenità.
Sento in fondo all’anima una specie di fiera tristezza, per aver saputo essere crudele con me e forse — perdonami — anche un po’ con te…
Io provo una soddisfazione speciale quando rifiuto qualche bella felicità che m’offre il Destino. E quale felicità, Amica mia!
Il nostro amore che sarebbe fiorito con tutti i fiori della primavera torinese! (così dolce per l’esule che ritorna!) anche la stagione sarebbe stata propizia alla nostra follia! E quanti mesi di serenità, di sole, di profumo! E quanti sogni! Avremmo voluto pellegrinare la nostra passione in tutti i dintorni favorevoli al sentimento: quanti sogni! Io li ho già sognati tutti e t’ho già vista in tutti: con a sfondo i paesi sconosciuti, le viuzze di provincia dove si sarebbe delineata al mio fianco la tua svelta parigina figura primaverile.
Io non vedrò le tue vesti nuove. Sarò lontano, solo, con la mia ambizione taciturna: una compagna ben più crudele della tua malinconia… Perché non confessartelo, mia buona sorella? L’ambizione da qualche tempo mi artiglia in un modo atroce.
Non sento non vedo non godo non soffro di altro.
Come puoi tu, che pure hai tra le mani i germi di mille speranze e segni la stessa mia via, come puoi rivolgere ancora le forze della tua giovinezza verso altri destini? Per me, camminando diritto, con l’occhio fisso alla mia meta lontana (o quanto!) tutto è secondario e trascurabile: gioie e dolori: tutto, perfino la tua bellezza sulla quale mi sono chinato un istante, come su un fiore, al margine del sentiero, ma dalla quale mi separo tosto, perché arresterebbe di troppo il mio passo tranquillo…
Ah! Se io potessi darti una parte soltanto di questo mio orgoglio latente, anche il dolore che tu dici di avere in te impallidirebbe e l’amore ti apparirebbe qual è: un inganno della giovinezza e un episodio trascurabile in un destino come il mio e come il tuo.
E mai come in questi tempi che tale smania mi fa soffrire, ho avuto tanto disprezzo per le mie attitudini artistiche e ho tanto sentito la necessità di affinarle con lo studio, con la meditazione, col silenzio.
Tu hai ancora l’avidità di cogliere fiori e di godere l’ora che passa: per me anche la lusinga del piacere mi è intollerabile come un ostacolo sul mio sentiero.
Amalia, mio buon amico, quante di queste cose t’avrei detto e ti vorrei dire se tu non fossi giovine e bella! Ma hai degli occhi luminosi ed una bocca tentatrice ed è impossibile starti vicino senza diventare irriverenti con te come con una crestaia od una cortigiana qualunque…
Ho rilette queste sei pagine, amica mia: oimé! Parlo, parlo, e, sopra tutto, ragiono: quanto devo farti soffrire! E anche sdegnare. Perdonami.
Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai. E non t’avrei amata nemmeno restando qui, pur sotto il fascino quotidiano della tua persona magnifica; no: avrei goduto per qualche mese di quella piacevole vanità estetico-sentimentale che dà l’avere al proprio fianco una donna elegante ed ambita. Non altro. Già altre volte l’ho confessata la mia grande miseria: nessuna donna mai mi fece soffrire; non ho amato mai; con tutte non ho avuto che l’avidità del desiderio, prima, ed una mortale malinconia, dopo…
Ora con te, che sei il più eletto spirito femminile ch’io abbia incontrato mai, e con te che dici di amarmi, sono stato sempre e voglio essere ancora sincero: non ti amo. E la risoluzione più leale da parte mia è il distacco. Partirei pur non dovendo partire. Invece il Destino è propizio: m’impone l’esiglio anche per altre cause ch’io tolgo a pretesto.
Rivederci? A che scopo? Un colloquio di più nulla aggiungerebbe (o sottrarrebbe forse) alla fraterna benevolenza che noi dobbiamo portare l’uno dell’altro.
Addio, mia buona amica! Ti bacio.
Guido Gozzano

30 marzo 1908
Caro Amico, vi pensavo più buono di quanto vi dimostrate.
Credevo di meritare almeno una parola di risposta
se vi pareva troppa concessione accordarmi una visita come vi chiedevo.
Un’amicizia come la nostra non deve morire così fra la vostra indifferenza inerte e la mia esasperata tristezza.
Perché io non credo possibile per Voi e per me una fedeltà che resista alle lontananze e agli oblii.
Siamo entrambi troppo egoisti per i culti essenzialmente spirituali.
Mi costringete a mendicare dagli amici vostri le vostre notizie con parola leggera e anima febbrile.
Mi costringete a mendicare da Voi una condiscendenza che non dovrebbe esservi grave.
E mi è duro, sapete, curvarmi così. Vorrei parlarvi di cosa che non posso affidare a una lettera.
V’aspetterò a casa mia mercoledì fra le quattro e le cinque, o, se preferite un luogo aperto,
giovedì alle tre e mezza laggiù a’ piedi della collina dove già v’ho atteso una volta soffrendo.
Non rispondetemi se vi pesa, ricordate solo ch’io v’aspetterò con intenso desiderio,
e che vi prego di venire.
Stamani io scrivevo questo mentre tu forse aggiungevi per me tristezza a tristezza
nello otto pagine della tua lettera.
Non distruggo e non disdico il mio biglietto.
Ho troppa sete di te per saziarmi delle tue parole amare.
Non è vero ch’io abbia cose segrete a dirti, era una menzogna per indurti a venire.
Porta pure con te la tua ambizione, la tua freddezza, la diffidenza che hai verso di me.
Sarà meglio, forse mi guarirai; ma non inasprire ancora il mio male con un rifiuto.
Se anche non mi ami perché vuoi ch’io ti perda?
Perché vuoi farmi sentire così nera così crudele la mia solitudine, così completo il mio isolamento?
Ah! la gloria, Guido, come ne sogghigno!
Io non so come tu possa amare sognare darti a una così vacua cosa.
Io voglio più bene a te che alla gloria, quella non mi farà mai piangere né aspettare in ansia.
Amalia Guglielminetti