Michele
s’infilò nel fienile dall’architettura decaduta di una chiesa
sconsacrata. Una zaffata di fieno umido e di letame gli penetrò nelle
narici. Era l’afrore intimo e dolciastro della natura che partorisce
incessante, al chiuso e in segreto, sterpaglie, insetti e germi
invisibili: il sapore dolcissimo, eterno, che mantengono nella memoria i
fichi più squisiti della giovinezza, abbandonati a macerarsi al sole, assaggiati e mai goduti fino in fondo.
«Blanca?» Sprazzi di luce filtravano dalle tegole. «Dove ti sei nascosta?» Si affacciò sul piano di carico di un carro, ma conteneva solo un poncho smangiucchiato dai topi. Un tonfo lo fece trasalire: «Sei tu?».
Il fienile proseguiva con un angolo a elle. Michele entrò nel secondo stanzone.
Scoprì nella paglia una lunga scala d’appoggio, vittima del colpo di prima. Alzò gli occhi al soppalco. Un altro lampo da fine del mondo denunciò l’ombra del corpo femminile alla parete. Si era nascosta lassù, dietro un covone di fieno.
I pioli della scala gemettero sotto gli stivali. Michele si arrestava a ogni passo, non riusciva a distinguere se fosse un lamento del legno marcio o un sussulto della señora, irraggiungibile per un emigrante e ora così violabile, piolo dopo piolo, mentre il suo desiderio si elevava in un silenzio di chiesa. Lei si erse in piedi ad attenderlo. Nessuno dei due rideva più.
Fu sovrastato dal corpo di donna. Si soffermò sulle caviglie, bianche, fragili, perfette, che lo commossero per la loro grazia. Gli parve inaudito che potessero sostenere le lunghe gambe raffinate, le cosce tornite sotto la gonna rosa antico. Afferrò le caviglie con uno scatto. «Ah!» reagì Blanca in trappola. Stringendole quasi fossero l’impugnatura della scala, salì l’ultimo piolo.
La gonna volò dal soppalco, si posò sulla paglia e il fango. I pantaloni caddero sul lago rosa della gonna. Anche i vestiti si accoppiarono sotto la pioggia che sgocciolava dalle tegole rotte.
Nessuno dei due aveva mai fatto l’amore con tanta estenuante lentezza. Era come se avessero paura di rompersi. Il tango, che dalla prima notte al Bandoneón non aveva mai smesso di risuonare nei loro corpi disgiunti, poté vibrare in tutte le carezze con cui si riconobbero, confermandosi di essere venuti al mondo l’uno per la gioia dell’altra. I sogni di Blanca erano popolati di uomini. Michele ignorava che fosse stata educata da rigide monache. Le avevano insegnato a sopportare cristianamente i doveri coniugali. Per la prima volta quegli indistinti nudi maschili evasero dalle sue segrete fantasie e si materializzarono, liberati. Lei godette da ciascuna di quelle anime incarnate. Lo toccava e le sembravano in dieci. Arrendersi a tutti moltiplicò il suo piacere allo spasimo.
La lingua di Michele la fece gemere. Serrò il suo volto fra le cosce, inarcò il bacino, offrì in dono il proprio nettare alla maschilità assetata. Lui la bevve. Con le labbra che non stavano mai ferme, solcò il monte di Venere, il ventre teso, i seni. Quel corpo era la sua Isola delle Femmine in Sudamerica. Più di una donna, un’avventura. La vissero senza sapere dove i loro corpi li avrebbero portati. La bocca di Blanca avvolse il membro. Fu eccitata e fiera del potere di ingigantirlo (di ingigantirli tutti) conoscendolo nella sua estensione e inghiottendolo fino a sentire il rigonfiamento delle sue soffici radici. Al culmine del desiderio si lasciò attraversare da lui, possedendolo a propria volta. È l’amore, feroce come sanno renderlo i grandi amanti, ancora presente in quel fienile insieme a tutte le cose che ci sopravvivono. I loro discorsi fluttuano sull’afrore dei fichi spezzati e delle mele appena sbocconcellate, furono e sono sempre parte della natura che partorisce, nell’ombra, sterpaglie, germi, gocce di vita e il patto eterno di due esseri speciali.
“TANGO ALLA FINE DEL MONDO” di DIEGO CUGIA
«Blanca?» Sprazzi di luce filtravano dalle tegole. «Dove ti sei nascosta?» Si affacciò sul piano di carico di un carro, ma conteneva solo un poncho smangiucchiato dai topi. Un tonfo lo fece trasalire: «Sei tu?».
Il fienile proseguiva con un angolo a elle. Michele entrò nel secondo stanzone.
Scoprì nella paglia una lunga scala d’appoggio, vittima del colpo di prima. Alzò gli occhi al soppalco. Un altro lampo da fine del mondo denunciò l’ombra del corpo femminile alla parete. Si era nascosta lassù, dietro un covone di fieno.
I pioli della scala gemettero sotto gli stivali. Michele si arrestava a ogni passo, non riusciva a distinguere se fosse un lamento del legno marcio o un sussulto della señora, irraggiungibile per un emigrante e ora così violabile, piolo dopo piolo, mentre il suo desiderio si elevava in un silenzio di chiesa. Lei si erse in piedi ad attenderlo. Nessuno dei due rideva più.
Fu sovrastato dal corpo di donna. Si soffermò sulle caviglie, bianche, fragili, perfette, che lo commossero per la loro grazia. Gli parve inaudito che potessero sostenere le lunghe gambe raffinate, le cosce tornite sotto la gonna rosa antico. Afferrò le caviglie con uno scatto. «Ah!» reagì Blanca in trappola. Stringendole quasi fossero l’impugnatura della scala, salì l’ultimo piolo.
La gonna volò dal soppalco, si posò sulla paglia e il fango. I pantaloni caddero sul lago rosa della gonna. Anche i vestiti si accoppiarono sotto la pioggia che sgocciolava dalle tegole rotte.
Nessuno dei due aveva mai fatto l’amore con tanta estenuante lentezza. Era come se avessero paura di rompersi. Il tango, che dalla prima notte al Bandoneón non aveva mai smesso di risuonare nei loro corpi disgiunti, poté vibrare in tutte le carezze con cui si riconobbero, confermandosi di essere venuti al mondo l’uno per la gioia dell’altra. I sogni di Blanca erano popolati di uomini. Michele ignorava che fosse stata educata da rigide monache. Le avevano insegnato a sopportare cristianamente i doveri coniugali. Per la prima volta quegli indistinti nudi maschili evasero dalle sue segrete fantasie e si materializzarono, liberati. Lei godette da ciascuna di quelle anime incarnate. Lo toccava e le sembravano in dieci. Arrendersi a tutti moltiplicò il suo piacere allo spasimo.
La lingua di Michele la fece gemere. Serrò il suo volto fra le cosce, inarcò il bacino, offrì in dono il proprio nettare alla maschilità assetata. Lui la bevve. Con le labbra che non stavano mai ferme, solcò il monte di Venere, il ventre teso, i seni. Quel corpo era la sua Isola delle Femmine in Sudamerica. Più di una donna, un’avventura. La vissero senza sapere dove i loro corpi li avrebbero portati. La bocca di Blanca avvolse il membro. Fu eccitata e fiera del potere di ingigantirlo (di ingigantirli tutti) conoscendolo nella sua estensione e inghiottendolo fino a sentire il rigonfiamento delle sue soffici radici. Al culmine del desiderio si lasciò attraversare da lui, possedendolo a propria volta. È l’amore, feroce come sanno renderlo i grandi amanti, ancora presente in quel fienile insieme a tutte le cose che ci sopravvivono. I loro discorsi fluttuano sull’afrore dei fichi spezzati e delle mele appena sbocconcellate, furono e sono sempre parte della natura che partorisce, nell’ombra, sterpaglie, germi, gocce di vita e il patto eterno di due esseri speciali.
“TANGO ALLA FINE DEL MONDO” di DIEGO CUGIA
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