…Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare… io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare.

...solo un sogno, un'emozione...una nuvola...solo un alito di vento che ti sfiora, solo l'eco dei tuoi passi nella sera...

martedì 13 marzo 2012

Il poema degli incontri

Ai nostri incontri come degli stormi di uccelli
il gesto era un diamante dal frullo alto,
era una scheggia sottile che saltava dal tronco della lotta
sempre presente nelle prigioni, nei porti, nelle grandi piantagioni,
con le radici conficcate nella carne delle miniere di piombo,
sempre presente, ovunque, come nel respiro della cedranola
il muso umido delle bestie,
come nell’oceano livido la corrente
che spacca la verde acqua in due,
e la libertà ci accompagnava –
colomba pallida-argentea –
ai nostri incontri come degli stormi di uccelli.
Come potrei mai dimenticare
i movimenti fruscianti come il mare,
fortezze sublimi, flagellate,
cervi inseguiti che saltano oltre l’abisso?
Si faceva notte.
Lontano, in campagna, germogliava il grano.
Oscillava anche il sogno col latte in una brocca,
e attraverso il cannocchiale della notte
potevamo vederci meglio,
dalla nera oscurità della notte strappammo un lembo
dal quale ci cucimmo un manto sovrano.
Io correvo per queste strade
che oggi percorro così lentamente,
e nella mia folle corsa per un tozzo di pane
(portando nei pugni il nostro rosso mormorio)
passavo accanto al viale dalle tenere violacciocche
e di fresco cosparso di fine sabbia marina,
passavo accanto al muro come un piano aperto
dai tasti di sospiri.
Accanto a lui,
la mia apparizione sembrava inoffensiva,
quando dalle finestre si insinuava,
come un coltello piantato alle spalle,
la luce violetta delle lampade al quarzo.
Sapevo che dietro questi vetri
si trovava una stanza d’armi,
si preparava un colpo ostile per la mia classe,
si sceglieva dalla bacheca
la più abietta tra le armi
e il leopardo aspettava
leccando le cosce della donna.
Sotto la coperta di lana soffice
il ginocchio giallo marciva
sognando la storica velocità.
Passavo anch’io accanto al muro,
col petto come un calcio di fucile,
passavo per incontrare il mio amore
e il mio morso di pane:
il polmone palpitante nei piatti.
Quanto vi odiavo allora, viali puliti,
puro paesaggio dalla faccia profumata
complice innocente del grande crimine!
Mi ricordo di come mugghiava la città,
e i parchi avvolti dal fumo,
e l’ora apparentata ai cedri del Libano
quando la mano feroce, bagnata nel sangue troppo torbido,
si riposava accanto a un frutto tropicale.
Era una mano strangolata tra i capelli,
una mano fredda, cieca, purulenta,
e contorta come un moncone d’uncino
che ha fatto, allora, un cenno strano
e tu sei caduto, amico mio caro,
sei stramazzato coi grigi capelli al vento
in via Franzelari,
all’incontro.
Nel profondo dell’acqua brulicavano colori e pietre, erbe crude,
e si udiva, dal fondo, una cavalcata di cavalli,
mentre il mare pallido, alto, caotico e quieto,
conservando nei più tremendi furori la sua calma decisiva,
circondava con un collare
l’ora suprema della battaglia.
Nella bottega la lampada fumeggiava.
Il ciabattino inchiodava il volto del bambino,
i denti da latte,
il dito toccava la pelle della scarpa
come una ferita di vapori.
La maschera di velluto che portavo sul viso
doveva rendermi più scellerato mentre salivo le scale sontuose.
Perché il fatto mantenesse
il più infiammabile e puro contenuto,
questa classica tenuta da scassinatore
doveva essere onorata,
dovevo strapparmi in fretta la maschera dalla faccia,
quando il rumore della città scalava la finestra,
strapparmi in fretta la maschera dalla faccia,
e la mano feroce, demente, bagnata nel sangue torbido,
doveva cadere accanto al frutto tropicale, intatto,
come una sigaretta fumata in fretta.
Forse la mia fronte era allora un piroscafo affondato dal nubifragio
in cui l’oceano ha schiantato le sue radici,
un’erba calpestata da cavalli selvatici,
le cubie di brace dei remi
o la roccia dove volavano pallide ali.
Forse era una delle tue sciarpe,
una delle tue donne stordite dalla danza
al posto di veli il volto strappato,
al posto di ascelle riposate, sonde accese,
che ti attraversano come una marea solitaria –
vecchia conchiglia della dialettica.
Ho vagabondato alto come un pioppo,
come un moribondo prima di conoscere i panni della donna,
come uno sciatore sono scivolato sul tuo paesaggio lunare,
ho raccolto
la palpebra cifrata come una guida,
le rovine dell’aria,
le unghie dell’eco.
Ma non rallegratevi, nemici scellerati
per voi il mio viaggio è stato un insperato sollievo,
non accostatevi a questo poema,
né alla mia fronte simile a un piroscafo affondato dal nubifragio.
Un polmone di carbone ho raccolto per voi
sulle cime dei monti, da dove ho rivolto lo sguardo all’indietro per l’ultima volta.
E se la mia fronte appartiene al proletariato
come le cubie di brace dei remi,
e se questo poema è per lui
avvoltoio o bianchissime ali,
per voi, nemici scellerati della dialettica,
è un veleno,
è una pialla,
un fuso –
o un’ininterrotta esplosione di gemme
sopra le vostre carogne.
Il vostro delirio,
la moribonda vostra crudeltà,
e i vostri denti di legno lucidato,
si spezzano, si squarciano, scoppiano,
confitti nell’avorio della lotta.
Fantasmi della coscienza umana,
voi che vi addentrate come lupi nel sonno,
voi che spargete l’incubo della guerra,
i vostri gesti sono le convulsioni della morte,
i vostri gesti sono stelle cadenti,
civette impazzite sopra una caterva di topi,
una trappola per gli uomini
rotta dall’ala della libertà.
Libertà –
la tua chioma è piena di coltelli,
l’infinita, fosforescente tua chioma,
la lingua di fuoco della mia classe,
le tue mani sono protese
verso la furia dei venti
verso la furia delle piante
verso il corso dei fiumi sporchi di sangue
verso la cenere calda delle città bruciate,
sono dolorosamente protese
lungo questo secolo impulsivo
trapassato dalle frecce della vita.
Libertà, libertà amata,
alcuni ti credono
una pietra dimenticata dagli uomini
e lambita dalle acque,
altri credono che il tuo viso scorre
come una mongolfiera caduta in mare,
e nel suo velluto purpureo
il sestante
calcola l’ombra delle ciglia dell’amata,
altri ti credono una nave abbandonata
con a bordo una donna assassinata
e il suo fantasma trasmette segnali nelle lunghe notti,
ovvero conserva di te
un valzer malinconico,
credendo che le primavere saranno più azzurre
alla sua luce rosa.
Alcuni ti credono un guanto di piume
lungo fino al gomito,
attraverso la cui trama
il bacio porta a spasso il proprio miraggio.
Altri ti tastano piano col piede
come in un lago pieno insidie.
E tutti, tutti costoro,
approfittando del panico degli incendi,
piantano un coltello nella nuca dai biondi riccioli dell’umanità.
I coltelli non si esauriscono mai nelle ferite che hanno prodotto,
un grande salto dialettico galleggia sul pianeta
pieno fino al collo di cadaveri,
di voluminose assenze,
di materie trasparenti,
pieno di fumo,
di oggetti inutili,
di mani dilaniate,
di tutto ciò che non puoi incontrare nell’attesa,
di anemoni marini
su cui gli ostracizzati incidono il proprio nome,
da cui sono intagliate
le maschere levigate
per le grandi serate di gala.
Un grande salto dialettico galleggia sul pianeta
e in esso scompaiono i vostri registri contabili,
i vostri cuori,
caverne con pipistrelli,
bilance dementi,
con sangue su un piatto, e sputo sull’altro.
Il vostro delirio,
la moribonda vostra crudeltà,
e i vostri denti di legno lucidato,
si spezzano, si squarciano, scoppiano,
confitti nell’avorio della lotta.
Questi petti che recano,
con soddisfazione, nastri e medaglie,
petti come seppie che corrono dietro alla preda,
i petti che soffocano l’aria degli uomini,
l’aria delle piante,
l’aria dei cervi,
l’aria del carbone,
l’aria del fuoco,
l’aria delle parole,
l’aria del sonno,
l’aria dei messaggi,
petti come vestiti fuori moda
pregni d’urina dei cani di casa,
petti che attraversano le strade
come un ostacolo letargico,
essi saranno presto un vago tatuaggio
che osserveremo sotto potenti lenti.
Libertà, libertà amata,
al suono della tua voce le iene corrono sul campo impazzite,
tu tagli le teste dell’idra come la luna taglia i veli della nube,
attraversi il mondo come un’infinita nervatura,
come una lingua di fuoco,
di carne e sangue.
Nel suo sviluppo apparentemente calmo
la natura è un terribile cataclisma
e la sua testa mostruosa è mossa, come un nido,
da una spalla all’altra,
dalle nostre mani attente.
Forse voi non sapete quanto amasse Maria Teresa i cani da caccia,
le carrozze allungate con cavalli slanciati alla briglia,
forse non sapete quanto amasse l’opale scuro
e i topi bianchi rinchiusi in gabbie dorate.
Amici miei dalle profonde miniere di carbone,
quanti secoli sono trascorsi fino alla vostra comparsa laggiù,
quanti bicchieri si sono riempiti di sangue,
forse voi non sapete
quante mandrie selvagge si sono trasformate in slanciati cavalli da landò,
quanti millenni sono trascorsi
fino alla vostra comparsa in miniera,
fino a quando gli alberi sono marciti,
fino a quando i grandi elefanti della preistoria
si sono trasformati in neri fiumi sotterranei,
fino a quando i vostri occhi si sono assuefatti alla penombra,
fino a quando la nervatura di sangue che attraversa il pianeta
è schizzata all’improvviso come una lingua di fuoco –
la nervatura lungo la quale per molto tempo
il vostro percorso è stato anch’esso un fiume sotterraneo
fino al suo esito vulcanico,
fino alle impietrite foreste di felci,
fino al terrificante incendio in cui ancora bruciano i nostri scheletri.
Nelle miniere profonde si odono ancora i passi del mondo di un tempo.
Ogni pezzo di carbone è pieno di sangue
e la nervatura infinita, di cui vi parlo,
ora passa qui,
le orme dei passi di un tempo sono rimaste come incisioni funerarie
e tutte finiscono,
tutte iniziano
nelle vostre palme profonde,
nelle vostre dita, gloriose radici delle nuove germinazioni.
La gabbia dorata in cui Maria Teresa rinchiudeva i topi sapienti,
le lunghe carrozze in cui portava a spasso malinconica le cosce,
i pesanti scanni delle sale imperiali
dove passava la delirante, folle regina,
tutto giace nella carne del carbone spaccato dalle vostre mani
e tutto entra nella vostra iride,
nelle vostre ossa,
come una lingua di fuoco.
Questa fiamma ci appartiene
perché entra in noi assieme all’aria,
perché siamo giunti al termine vulcanico del mondo,
la sua temperatura elevata è la temperatura dell’intera nostra classe,
è il fiore di cicuta, di orzo, di acacia, o di bambù,
l’immenso fiore della libertà.
Nelle miniere profonde si odono ancora i passi del mondo di un tempo,
ma le fastose vesti sventolano spente
e muoiono per sempre come i fiori nella tundra.
Libertà, libertà amata,
ti incontro ovunque:
là dove sgorga l’acqua,
là dove si agita la tempia dei popoli
come un atollo inquieto,
negli occhi aperti per vedere,
negli occhi chiusi per comprendere,
nei pugni splendenti di promesse,
nelle voci degli uomini,
nello stridore della biella,
nel dolce sussurro della pialla,
nelle pietre, nei fiumi, nelle piante,
nell’amore,
nelle ferite degli alberi della gomma,
in Vietnam,
nell’isola di Fortuna,
sotto i ponti mandati in aria,
ti incontro
nel rivestimento acquamarino dei tubi,
nei nidi che ardono per sbocciare più caldi,
nella trasparenza delle meduse,
nell’aroma dei cesti di vimini,
nella motivo ingenuo delle brocche,
nell’impercettibile oscillazione del capo,
ti incontro mentre esuberante attraversi
l’intero sistema cefalorachideo del pianeta,
nella polarità delle attività umane,
nei libri di Lenin,
nei cordoni viola che cingono la luna,
nei vostri gesti degli incontri,
nei vostri gesti di adesso,
carichi dell’intatta luce della lotta,
e fin laggiù, lontanissimo,
dove a stento arriva
lo sguardo dell’illeggibile.
La terribile caccia si è appena conclusa,
la sua orrenda figura pende nei nostri occhi
come un cadavere tumefatto al collo di una giraffa
(guerra, quando scrivo il tuo nome l’inchiostro incupisce)
i macellai aspettano di nuovo con impazienza
che gli vengano presentate su cuscini di velluto le teste dei bambini uccisi:
lo scalpello biondo della vita
incoronato di allori.
Libertà,
foresta di olivi intrisa di sangue,
non sarai in pericolo fino a quando i nostri occhi conserveranno la loro pupilla,
fino a quando le nostri mani si cercano
e s’incontrano lungo il pianeta,
le mie mani riflettono le tue mani,
le tue mani rispecchiano le mie mani,
le nostre mani raccolgono, come un monte di giada, milioni di mani del mondo.
Sotto il grande Circolo Artico rovinano foreste.
Le tempeste gettano nei laghi branchi di renne smarrite,
nelle case di ghiaccio il grasso di foca arde a meraviglia
e nella grande notte polare tutto sembra morto e abbandonato,
ma sotto le nevi scorrono dense le vene aurifere.
In una primavera boreale gli uomini le hanno scoperte
e questa materna, fiorente, confusa primavera è nostra,
dal polo fino alle oasi di palmizi
e oltre.
La finestra aperta era allora una rosa coperta di spine.
I cucchiaini tintinnavano nei bicchieri.
Attraverso i vetri spalancati i rami degli alberi più alti
si addentravano fin sopra i bicchieri di tè.
Alle radici di questi alti alberi,
profittando della luce che la prima notte di primavera
precipita negli uomini,
forti, silenziosi e molto attenti,
noi seminavamo l’ultima nostra parola,
la nostra parola:
per la pace
e la morte del persecutore,
per una vita migliore e per la sparizione delle guerre.
È bene sognare (dicevamo noi),
sognare e cambiare,
cambiare soprattutto e non dimenticare mai
il tempo e il luogo,
non dimenticare mai la cornice di lacrime del mondo.
E i nostri gesti sembravano delle anfore piene
o forse le vele di una goletta.
È chiaro che la nave si muove a gonfie vele verso la rada delle nostre coste.
Il pilota dell’Ottobre ci ha portato in acque profonde.
I nostri occhi sanno leggere la bussola,
le nostre mani sanno muovere il sestante,
la zavorra è stata gettata
e il timone ci appartiene.
Ma voglio che sia chiaro:
noi non conficcheremo la lancia nella terra
fino a quando non soccomberete nella vostre stesse trappole,
fino a quando non sarete inghiottiti
con sciami cupi di serpi e di lacuste,
e fino a quando, asciugando il denso veleno della scolopendra,
con queste nostre mani,
non scaveremo in paludi e fango,
ai margini del mondo, una fossa per voi,
uccisori di prati e di laghi azzurri.
Virgil Teodorescu
(gennaio 1936 – febbraio 1946)

2 commenti:

Silvia ha detto...

minkia!
più lunga non c'era? :-D

MALINCONIA LEGGERA ha detto...

hahaha...anche di là l'avevi detto!! :-)