Io volerò attraverso la bocca della candela, indenne falena
(Sylvia Plath)
Contratte a cogliere i suoni le abbiamo lasciate
a fare e disfare su rozzi telai brandelli di vita.
Senza volto né nome
avevano cuori d'argento da appendere alle volte
di grotte scavate in anfratti
da seminare nell'alveo di fiumi asciutti come vertebre
di mastodonti in rilievo.
Furono mysterion rinchiuso tra rozze pareti, negli occhi l'arsura,
in rigidezza di membra tenevano serrate frenesie di palpiti, un fuoco che ardeva.
Le abbiamo incontrate nei tempi di radici e tesori nascosti
nei raggi argentati di ruote che incidevano dentro la terra i drammi, gli eventi
e graffiavano a unghiate di fuoco le carni.
A spaccarle, come pigne,
come frutto di cocco,
ne uscivano nettare e latte
dolcezze impensate
sotto scorza di pelle-smeriglio,
sotto grinze di ataviche pene.
Da spaccati di secoli si spande il loro lamento
che è stato fragore di vene, rito, sentenza, un codice arcano
miniato su arabeschi di vento, filigrana di Aracne in precario equilibrio.
Avevano ritmi di lune e stagioni scandite da fasi di sangue,
da ventri ingravidati e dovizia di seni.
Spaccarono i corpi su durezza di zolle, sotto il cercine, come bestie da soma,
e il riscatto
era solo un arbusto d'argento cui bruciare incensi e pietà.
Scolpite su profili di roccia
hanno avuto radici straziate, un urlo di lava saliva le visceri
da squarci il magma fluiva su sciare di morte.
Furon letto di foglie caduche, sottobosco, l'umore di terra
e rugiada nell'alba
ma anche aroma di fiori e fragranza.
Furon pane e il sapore dell'uva e la bocca che prega e lamenta
furon grappolo e spiaggia e coltello, piaghe aperte
e tradite beltà.
Le chiamarono madri, amanti, sorelle circuendo il sentire del cuore
e strapparono loro le vesti e strapparono loro le carni
anche l'anima stava inchiodata
alle quattro pareti del cielo.
Furono mani in preghiera ed occhi di veglia, ginocchia piegate
e braccia in forma di cuna a proteggere i loro tesori.
Le portarono in giro pel mondo ricamate sopra vessilli
ma avevano mani piagate e labbra di luna spaccata,
cancellato dal vento l'amore.
Parole e condanna. Silenzi e condanna.
Nei polsi l'irromper di vene e bruciava la fronte
e l'affanno frantumava i lembi del cuore.
Sin dai giorni di Eva era stato:
sul paliotto dipinte madonne
ma le ossa spezzate
l'ansia ruga sul volto.
Furon grida taglienti a salire da tetti di canne
sangue bruno a macchiare le gore e bufere
e tormenti e ferite realtà.
Sempre esposte alla folgore, al rito, alla luce radente di luna
han portato sopra le spalle, loro sì, il peso del mondo
Loro, i piedi di tutte le genti,
loro, i corpi sudati a cercarle
a squassarne le viscere, rapinarne ogni fiato.
Sono state il bottino di guerra da portare in catene sul carro
loro, schiave, le lingue tagliate,
incapaci di prendere il volo
ripiegarono le ali sul petto a proteggere vulnerabile il cuore.
Sono state sospiri e sussurri.
Loro fiaccole accese di notte
Loro, fari a risplender nel buio
e le grida dei sogni ed il vento che si è fatto carezza.
A pensarle tappezzano i muri, sono luce che splende sui vetri
si dilatano a chioma di albero, sono foglie che cantano
ed il fiore sul fragile stelo
e la forza dell'erba che sconfigge stagioni e ritorna.
Le ho incontrate nel verde dell'alga
con smeraldi negli occhi, con minuscole attinie in punta di dita.
Palpitanti.
Le ho ascoltate in notti di luna scioglier canti d'amore dolcissimi
eran l'ombra tra i tronchi degli alberi, il lucore di stella
e la voce più forte, più alta, carezzevole al lobo,
Eran mani: han posato carezze che lasciarono impronte di fuoco
e la pelle era ruvida, dura
ma struggente il gesto d'amore.
Io le ho amate ed in esse l'essenza di me donna
che nel mio tempo breve conservo memoria di quell'essere state
vene aperte, riso lieve di mandorlo, un miscuglio di insonnia e fatica,
aggrappate al bisogno di esistere
e quell'ansia di dare e donarsi
col sorriso a celare la pena.
Anche il tempo si stanca
solo il cuore resiste con le rughe fiorite
ed i gambi spinosi di rosa,
braccia aperte in segno d'accolta
e gli occhi radiosi, la notte,
della luce di lune inventate.
S'è impigliata alla chioma dell'albero come sciarpa
la nenia del canto - e resiste
di fanciulle che furono
l'alone di luce, una nota sperduta.
Le ho incontrate scolpite nel marmo, dipinte ad affresco su volte ammuffite
processione di vergini su musaici di sole.
Han lasciato un messaggio di vita,
furon madri dai fianchi larghi modellati in impasto di creta
e alchimie sono state
e il segreto per estrarre dal vile metallo lo splendore abbagliante dell'oro.
Han segnato l'aria di sguardi
e le senti ancora vagare le pupille-carezza sul corpo
e dan brividi dolci alle carni.
Son presenze nell'aria quando gonfian le nebbie
e le braccia stan lì
e le mani e le labbra di quelle che furono forme che riconosco
per questo mio essere la loro propaggine ultima
il cuore rosso-memoria delle loro storie di vita.
Solitaria coltivo giorni e cantilenando racconto
di antichi profili, di ombre che ormai hanno scordato
la legge di gravità
e tra i grandi alberi vanno fluttuando di sera.
Sono una di loro. Lentamente
le fibre del mio corpo si sfanno, come piuma rosata
sfrùscio segreta e domani qualcuno leggerà anche la mia storia
sul pentagramma del tempo immutabile.
Anche le assenze hanno respiro.
Incorruttibile il fiato.
Voce, voce di taciuti sorrisi.
E ancora giorni verranno e notti nell'arcatura del cielo.
(Sylvia Plath)
Contratte a cogliere i suoni le abbiamo lasciate
a fare e disfare su rozzi telai brandelli di vita.
Senza volto né nome
avevano cuori d'argento da appendere alle volte
di grotte scavate in anfratti
da seminare nell'alveo di fiumi asciutti come vertebre
di mastodonti in rilievo.
Furono mysterion rinchiuso tra rozze pareti, negli occhi l'arsura,
in rigidezza di membra tenevano serrate frenesie di palpiti, un fuoco che ardeva.
Le abbiamo incontrate nei tempi di radici e tesori nascosti
nei raggi argentati di ruote che incidevano dentro la terra i drammi, gli eventi
e graffiavano a unghiate di fuoco le carni.
A spaccarle, come pigne,
come frutto di cocco,
ne uscivano nettare e latte
dolcezze impensate
sotto scorza di pelle-smeriglio,
sotto grinze di ataviche pene.
Da spaccati di secoli si spande il loro lamento
che è stato fragore di vene, rito, sentenza, un codice arcano
miniato su arabeschi di vento, filigrana di Aracne in precario equilibrio.
Avevano ritmi di lune e stagioni scandite da fasi di sangue,
da ventri ingravidati e dovizia di seni.
Spaccarono i corpi su durezza di zolle, sotto il cercine, come bestie da soma,
e il riscatto
era solo un arbusto d'argento cui bruciare incensi e pietà.
Scolpite su profili di roccia
hanno avuto radici straziate, un urlo di lava saliva le visceri
da squarci il magma fluiva su sciare di morte.
Furon letto di foglie caduche, sottobosco, l'umore di terra
e rugiada nell'alba
ma anche aroma di fiori e fragranza.
Furon pane e il sapore dell'uva e la bocca che prega e lamenta
furon grappolo e spiaggia e coltello, piaghe aperte
e tradite beltà.
Le chiamarono madri, amanti, sorelle circuendo il sentire del cuore
e strapparono loro le vesti e strapparono loro le carni
anche l'anima stava inchiodata
alle quattro pareti del cielo.
Furono mani in preghiera ed occhi di veglia, ginocchia piegate
e braccia in forma di cuna a proteggere i loro tesori.
Le portarono in giro pel mondo ricamate sopra vessilli
ma avevano mani piagate e labbra di luna spaccata,
cancellato dal vento l'amore.
Parole e condanna. Silenzi e condanna.
Nei polsi l'irromper di vene e bruciava la fronte
e l'affanno frantumava i lembi del cuore.
Sin dai giorni di Eva era stato:
sul paliotto dipinte madonne
ma le ossa spezzate
l'ansia ruga sul volto.
Furon grida taglienti a salire da tetti di canne
sangue bruno a macchiare le gore e bufere
e tormenti e ferite realtà.
Sempre esposte alla folgore, al rito, alla luce radente di luna
han portato sopra le spalle, loro sì, il peso del mondo
Loro, i piedi di tutte le genti,
loro, i corpi sudati a cercarle
a squassarne le viscere, rapinarne ogni fiato.
Sono state il bottino di guerra da portare in catene sul carro
loro, schiave, le lingue tagliate,
incapaci di prendere il volo
ripiegarono le ali sul petto a proteggere vulnerabile il cuore.
Sono state sospiri e sussurri.
Loro fiaccole accese di notte
Loro, fari a risplender nel buio
e le grida dei sogni ed il vento che si è fatto carezza.
A pensarle tappezzano i muri, sono luce che splende sui vetri
si dilatano a chioma di albero, sono foglie che cantano
ed il fiore sul fragile stelo
e la forza dell'erba che sconfigge stagioni e ritorna.
Le ho incontrate nel verde dell'alga
con smeraldi negli occhi, con minuscole attinie in punta di dita.
Palpitanti.
Le ho ascoltate in notti di luna scioglier canti d'amore dolcissimi
eran l'ombra tra i tronchi degli alberi, il lucore di stella
e la voce più forte, più alta, carezzevole al lobo,
Eran mani: han posato carezze che lasciarono impronte di fuoco
e la pelle era ruvida, dura
ma struggente il gesto d'amore.
Io le ho amate ed in esse l'essenza di me donna
che nel mio tempo breve conservo memoria di quell'essere state
vene aperte, riso lieve di mandorlo, un miscuglio di insonnia e fatica,
aggrappate al bisogno di esistere
e quell'ansia di dare e donarsi
col sorriso a celare la pena.
Anche il tempo si stanca
solo il cuore resiste con le rughe fiorite
ed i gambi spinosi di rosa,
braccia aperte in segno d'accolta
e gli occhi radiosi, la notte,
della luce di lune inventate.
S'è impigliata alla chioma dell'albero come sciarpa
la nenia del canto - e resiste
di fanciulle che furono
l'alone di luce, una nota sperduta.
Le ho incontrate scolpite nel marmo, dipinte ad affresco su volte ammuffite
processione di vergini su musaici di sole.
Han lasciato un messaggio di vita,
furon madri dai fianchi larghi modellati in impasto di creta
e alchimie sono state
e il segreto per estrarre dal vile metallo lo splendore abbagliante dell'oro.
Han segnato l'aria di sguardi
e le senti ancora vagare le pupille-carezza sul corpo
e dan brividi dolci alle carni.
Son presenze nell'aria quando gonfian le nebbie
e le braccia stan lì
e le mani e le labbra di quelle che furono forme che riconosco
per questo mio essere la loro propaggine ultima
il cuore rosso-memoria delle loro storie di vita.
Solitaria coltivo giorni e cantilenando racconto
di antichi profili, di ombre che ormai hanno scordato
la legge di gravità
e tra i grandi alberi vanno fluttuando di sera.
Sono una di loro. Lentamente
le fibre del mio corpo si sfanno, come piuma rosata
sfrùscio segreta e domani qualcuno leggerà anche la mia storia
sul pentagramma del tempo immutabile.
Anche le assenze hanno respiro.
Incorruttibile il fiato.
Voce, voce di taciuti sorrisi.
E ancora giorni verranno e notti nell'arcatura del cielo.
Adriana Scarpa
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